7 febbraio 1986 Sentenza della Pretura Circondariale di Terni


7 FEBBRAIO 1986

SENTENZA DELLA PRETURA CIRCONDARIALE DI TERNI

 

Con provvedimento in data 9 dicembre 1985, inottemperato l’ordine di esecuzione ex art. 342 c.p.p. emesso il 20 novembre 1985 sulla base dell’acquisita notitia criminis, e previi primi accertamenti urgenti espletati a mezzo della questura di Terni ed eseguiti avvalendosi dell’ausilio dell’architetto Contessa Omero all’uopo nominato perito in via urgente con fono del 7 dicembre 1985, questo pretore provvedeva ai sensi art. 219 e 337 c.p.p. a sequestrare il cantiere e macchinari utilizzati per gli scavi relativi all’ultimo tronco della c.d. strada panoramica di Piediluco inibendo comunque la prosecuzione dei predetti lavori, sequestrando tutta la documentazione in originale comunque concernente tale strada, presso gli enti pubblici territoriali dei comune e provincia di Terni e presso la regione Umbria, contestualmente contestando al titolare dell’impresa appaltatrice dei lavori il reato p. e p. dall’art. 734 c.p. nonché quello di cui in rubrica.

Il provvedimento urgente e necessitato alla luce del secondo esposto del 5 dicembre 1985 che lamentava l’avvio dei lavori di sbancamento della roccia, e volto al fine di impedire che il reato venisse portato ad ulteriori conseguenze, veniva emesso alla luce del rapporto in pari data alla questura di Terni che, sulla base delle indagini conseguenti e nel corso delle prime attività delegate realizzate, riferiva:

a) «l’assenza di strumento urbanistico specifico entro cui far ricomprendere i lavori della strada» e che inoltre gli «strumenti urbanistici (primo P.R.G. approvato il 16 ottobre 1984 n. 464; secondo P.P. approvato il 25 febbraio 1985 con delibera n. 68 e terzo P.P. in variante in data 5 novembre 1985 delibera n. 92) non riguardano la previsione della strada ma solamente un sentiero pedonale»;

b) che «l’iniziativa di procedere alla costruzione della strada … venne realizzata su parere dell’assessore comunale all’urbanistica del comune di Terni sulla base dell’art. 1, 5° comma, l. 3 gennaio 1978 n. 1».

Nel prosieguo della complessa istruttoria ancora in corso veniva quindi acquisito tutto il materiale di prova amministrativo sequestrato in originale, onde verificare per un verso la sussistenza e per altro verso la legittimità dei provvedimenti autorizzatori necessari ex lege e cioè il rispetto formale e sostanziale della disciplina a protezione delle bellezze naturali (l. 29 giugno 1939 n. 1497 e r.d. 3 giugno 1940 n. 1357, l. reg. Umbria 1° marzo 1980 n. 4 e 8 giugno 1984 n. 29 nonché della recente l. 8 agosto 1985 n. 431 di conversione del d.l. 27 giugno 1985 n. 317) essendo la zona circostante il lago di Piediluco sita nell’ambito del comune di Terni già dichiarata di notevole interesse pubblico alla luce della normativa previgente con d.m. 26 gennaio 1957 e comunque i lavori in corso realizzati nella fascia dichiarata protetta dall’art. 82 d.p.r. 616 del 1977 novellato dall’art. 1 l. 431/85 citata: «territori con termini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla battigia anche per territori elevati sui laghi».

L’indagine richiedendo un ulteriore approfondimento tecnico di particolare complessità, integrare la valutazione riservata a questa a.g. sulla sussistenza in concreto della lesione dell’interesse penalmente protetto dall’art. 734 c.p., e proseguita attraverso una attività peritale ancora in corso (provvedimento di nomina del perito in data 31 gennaio 1986), previo annullamento dell’attività istruttoria realizzata senza il rispetto dei termine di cui all’art. 304 ter c.p.p. e senza avere previamente esteso l’imputazione agli altri soggetti indiziati di reato. Attualmente la contestazione è stata perciò estesa agli imputati Cerquaglia Zefferino e Amati Giovanni (rispettivamente presidente della giunta provinciale di Terni e direttore dei lavori nominato dalla provincia), ma solo per il reato di cui agli art. 110, 734 c.p. Emerge infatti dalle risultanze processuali e sulla base degli elementi fin qui raccolti che la violazione della norma penale di cui all’art. 1 sexies l. 4 marzo 1985 non sussiste per le considerazioni che succintamente si esprimono qui di seguito e che nel condurre ad una immediata sentenza istruttoria in favore dell’imputato originario ai sensi dell’art. 152 c.p.p., hanno fatto propendere per converso per la sola estensione parziale del capo d’imputazione agli imputati suindicati procedendosi separatamente in tal direzione.

A) In primo luogo va preliminarmente solo considerata la natura del tutto insolita e particolarmente indeterminata sia del precetto che della sanzione della fattispecie penale in oggetto (per l’uno si rinvia «alle disposizioni di cui al presente decreto» … «ferme restando le sanzioni di cui alla l. 29 giugno 1939 n. 1497» e per l’altra alle sanzioni di cui all’art, 20 l. 28 febbraio 1985 n. 47, con evidenti gravi problemi di coordinamento). Tale infelice tecnica legislativa adottata, che si presta a numerose considerazioni sulla eccessiva indeterminatezza del nucleo normativo della fattispecie,(sia sotto il profilo precettivo che sanzionatorio) potrebbe lasciare perciò almeno iniziali dubbi sul se la stessa sia stata posta anche a presidio del complesso dei procedimenti autorizzatori già normativamente fissati cosí come integrati nella fase finale con i poteri eventuali concorrenti o sostitutivi del ministero beni culturali e ambientali (ritenendosi il richiamo alle disposizioni della legge quale richiamo di quelle che essa stessa a sua volta necessariamente presuppone; ad ex art. 7 ss. l. 1497/39) ovvero solo della specifica disposizione di cui all’art. 1 ter che determina le aree in cui è «vietata, fino all’adozione da parte delle regioni dei piani paesistici», ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché qualsiasi opera edilizia, con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’assetto esteriore degli edifici.

Questo giudice opina per la prima lettura, che esclude di fatto il sussistere di una nuova fattispecie penale «transitoria» e peraltro una opzione interpretativa di tal genere, che necessita anche di ulteriori argomentazioni, risulta nel concreto contesto processuale non decisiva.

B) In secondo luogo va infatti chiarito che la vicenda amministrativa che ha preceduto i lavori per l’ultimo tratto della strada di Piediluco (attualmente strada provinciale per lo più interessante aree già espropriate 30 anni prima dalla provincia di Terni che iniziò e poi interruppe i lavori) è dislocata lungo gli anni ’80 e risulta, sotto il solo profilo formale che è qui in considerazione, aderente al regime urbanistico e a quello speciale di protezione delle bellezze naturali cosi come disegnate sino alla recente l. 431 c.d. legge Galasso, essendo stati espressi tutti i prescritti pareri e tra essi in particolare quello del consorzio socioeconomico urbanistico del comprensorio ternano (n. 189 del 7 settembre 1984) e quello a fini ambientali della regione Umbria (delibera n. 2251 del 10 aprile 1985) e risultando infine la concessione relativa ai lavori regolarmente emanata a conclusione del procedimento e la variante al piano regolatore generale implicitamente adottata con la stessa delibera comunale di approvazione dei lavori ai sensi della legge sull’accertamento delle procedure per la realizzazione delle opere pubbliche. Tuttavia tali considerazioni non concludono l’iter logico del giudicante.

La cosiddetta legge Galasso, infatti, ha parzialmente modificato l’iter autorizzativo ordinario provvedendo all’art. 1, 5° comma, che «le regioni danno immediata comunicazione al ministero beni culturali e ambientali e trasmettono contestualmente la relativa documentazione. Decorso inutilmente il predetto termine gli interessati … ecc.».

Con riguardo alla ventilata applicazione della disciplina suddetta la provincia di Terni ha inteso però contestare in radice ed in astratto la fondatezza di questa interpretazione affermando in una nota dell’11 dicembre 1985 (in atti): «la zona sulla quale insiste la panoramica di Piediluco è già da alcuni anni sottoposta al vincolo della l. 29 giugno 1939 n. 1497 per cui, nei suoi confronti, è influente la l. 8 agosto 1985 n. 431».

Se tale assunto fosse vero nei termini generali surriferiti ciò significherebbe in sostanza che per le esigue aree già protette previa pubblicazione degli appositi elenchi ed in relazione ad eventuali future opere o lavori da realizzare, non vi sarebbe possibilità di intervento dei ministero beni culturali e ambientali, ed obbligo di comunicazione dell’autorizzazione regionale a questo, non potendosi in sostanza ritenere il vincolo operante sotto l’unico profilo peculiare innovativo nell’alterazione del modello autorizzatorio. La tesi appare invero assurda e non tiene nella dovuta e logica considerazione la necessaria prevalenza della legge sopravvenuta sulla cui sfera generale di operatività non è lecito dubitare.

Il problema è in realtà altro: infatti i lavori relativi alla strada panoramica di Piediluco sono stati approvati prima che il d.l. 25 giugno 1985 n. 312 poi convertito con l. 431/85 entrasse in vigore, e sono entrati nella fase di esecuzione (in senso lato intesa) subito dopo la stipulazione del contratto, cui è succeduta la necessaria attività di approvvigionamento dei materiali ed acquisto dei necessari macchinari, mentre solo la concreta attività materiale di sbancamento della montagna per ricavare la futura sede stradale è iniziata il 5 dicembre 1985 (ed è però quest’ultima ed anche l’esito futuro dell’opera, secondo l’insegnamento della Suprema corte, che interessano invece ai fini dell’accertamento in ordine al reato p. e p. dall’art. 734 c.p.).

Orbene se la preesistenza dei vincolo induce quindi solo e con piana conseguenzialità a non ragionare in termini di sopravvenienza ex lege di questo (il che diversi problemi di ordine giuridico avrebbe comportato), il preventivo completamento dell’iter autorizzatorio previsto dalle leggi regionali e statali preesistenti, a tutela dell’ambiente, porta invece ad escludere già sul piano amministrativo una sopravvenuta illegittimità della concessione. La vicenda de qua rende infatti al più ammissibile l’uso di istituti tipici di autotutela, rimanendo legittimato comunque il ministero dei beni culturali e ambientali ad intervenire annullando la concessione e sembrando semmai opportuna l’attivazione della regione onde mettere in grado l’organo statale di tutelare l’interesse pubblico lo Stato conservando poteri nonostante l’avvenuto trasferimento (in materia di piani paesistici), nonché la delega di funzioni amministrative ciò indipendentemente dal termine che nella legge Galasso è ancorato alla data di rilascio dell’autorizzazione, termine che non sarebbe quindi in concreto utilizzabile.

Nel caso di specie in conclusione non può ritenersi quindi comunque integrata la violazione del precetto in bianco di cui all’art. 1 sexies l. 431 citata, fattispecie penale introdotta con riguardo essenziale ad ipotesi di mancato rispetto dei divieti speciali e, per aree protette, del procedimento autorizzatorio nella sua essenza, e quindi anche dell’obbligo della comunicazione dell’autorizzazione regionale al ministro dei beni culturali e ambientali, ma non in ipotesi di iter procedimentali: 1) già conclusi anteriormente alla entrata in vigore della nuova legge; 2) riguardanti lavori in aree già vincolate.

Tale lettura trova un ultimo conforto sia pure indiretto anche nella normativa amministrativa adottata dal ministero dei beni culturali e ambientali con circolare 31 agosto 1985 n. 8 di applicazione della l. 431/85, nella parte in cui è riferita ai beni per i quali è stato adottato il sistema inibitorio assoluto (e cioè un meccanismo di protezione preventiva e ben più penetrante, e che non appare compatibile con deroghe) individuati dallo Stato ai sensi del d.m. 21 settembre 1984 o dalle regioni ai sensi dell’art. 1 ter 1, 431: ivi è detto tra l’altro che «su tali beni il divieto non opera … d) per le opere non iniziate ma approvate a norma dell’art. 7 l. n. 1497/39, prima dell’entrata in vigore della l. 431 in questione». Per tali opere pertanto è espressamente ritenuto necessario solo un riesame alla luce della disciplina della legge Galasso e nel rispetto della procedura ivi regolamentata, onde stabilire se l’entità, la natura, ecc. delle opere possano consentirne l’attuazione o se, invece, per esse debba vigere il divieto fino all’entrata in vigore del piano paesistico.

Tali considerazioni conducono pertanto argomentando a contrario a ritenere a maggior ragione non sanzionato penalmente il mancato parziale rinnovo della fase terminale del procedimento autorizzatorio, nel caso di specie (ove l’area era già protetta).

L’imputato deve essere pertanto subito prosciolto in fase istruttoria in ordine al reato ascrittogli in rubrica, alla luce dei principi espressi nell’art. 152 c.p.p. (anche perché, pur diversamente opinando, in ultima ratio, non gli si sarebbe potuto addebitare comunque anche solo a titolo di colpa il mancato successivo invio dell’autorizzazione regionale al ministro dei beni culturali e ambientali). (Omissis)