5 novembre 1999 Ordinanza n. 64 del Tribunale di Milano

5 NOVEMBRE 1999

ORDINANZA N. 64 DEL TRIBUNALE DI MILANO

 

IL TRIBUNALE

Con decreto di citazione emesso dalla procura della Repubblica presso questa pretura in data 12 maggio 1995 veniva esercitata l’azione penale nei confronti di Libera Mirco Antonio per il reato di cui all’art. 71-ter, lettere b) e c), legge n. 633/1941, per avere il medesimo detenuto per la vendita, il 9 febbraio 1995, 30 musicassette e 39 compact-disks sprovvisti del timbro S.I.A.E., nonché per il reato di cui all’art. 648, c.p., per la ritenuta conseguente ricettazione dei supporti in argomento in quanto si legge, testualmente nell’impianto accusatorio, «illecitamente riprodotti e realizzati da master di provenienza delittuosa perché oggetto di delitti di cui agli art. 1, legge n. 400/1985, legge n. 406/1981, 171-ter, lettera A, legge n. 633/1941, introdotto con d.lgs. n. 685/1994 commessi in data e luogo indeterminati».

Celebrata la fase dibattimentale, va innanzitutto premesso, quale elemento rilevante in relazione a quanto si dirà, come il fatto materiale della disponibilità dei supporti sopra menzionati in capo al Libera, nonché la circostanza della loro esposizione per la vendita il 9 febbraio 1995 in piazza Duomo, in Milano, siano ragionevolmente certi, alla luce della testimonianza dell’operante Baldari, oltre che alla luce del verbale di sequestro in atti.

Questo detto, ritiene però necessario lo scrivente svolgere preliminarmente alcune considerazioni in ordine al divenire della realtà normativa in materia, e nello specifico svolgere alcune considerazioni in merito all’impianto normativo esistente fino al 31 dicembre 1994 relativamente alla tutela penale di opere coperte dal diritto d’autore, ed in particolare alla tutela di opere cinematografiche, di dischi e supporti analoghi, di videocassette e di musicassette.

Detta tutela penale veniva offerta in realtà dalla legge n. 406/1981, dalla legge n. 400/1985, architetture normative queste cui ha fatto riferimento l’organo titolare dell’azione penale nel decreto di citazione, nonché dalla legge n. 121/1987, strumento normativo di conversione del d.l. n. 9/1987.

Con la prima si sanzionavano penalmente condotte di abusiva riproduzione a fini di lucro, di dischi, nastri o supporti analoghi, o comportamenti di introduzione in commercio, di detenzione per la vendita o di importazione nel territorio dello Stato dei beni in parola.

Con la seconda si assoggettano a reazione penale condotte di abusiva duplicazione o riproduzione, sempre a fini di lucro, di opere cinematografiche destinate al circuito cinematografico o televisivo, oppure comportamenti di introduzione in commercio, detenzione per la vendita o importazione nel territorio dello Stato delle opere in questione.

Con la terza di contemplava una reazione penale in ipotesi di vendita o noleggio di videocassette riproducenti opere cinematografiche e non contrassegnate dalla Società italiana degli autori ed editori (S.I.A.E.) ai sensi della legge 22 aprile 1941, n. 633, sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, e del relativo regolamento di esecuzione approvato con r.d. 18 maggio 1942, n. 1369.

Tale impianto normativo prevedeva anche sanzioni penali per i comportamenti di vendita di musicassette non contrassegnate dalla Società italiana degli autori ed editori (S.I.A.E.) ai sensi delle disposizioni sul diritto d’autore e su altri diritti connessi al suo esercizio richiamate al comma 1 testé riportato.

Va pertanto subito rilevato come le disposizioni della menzionata legge n. 121/1987 no abbiano tout court assoggettato alla reazione penale contemplata dalla legge n. 400/1985 comportamenti coincidenti con quelli in quest’ultima previsti aventi ad oggetto i supporti (videocassette e musicassette) nella stessa legge n. 121/1987 indicati, ma abbiano specificamente assoggettato a sanzione penale le sole condotte di vendita o noleggio per le videocassette, e di sola vendita per le musicassette, ove non contrassegnate dalla S.I.A.E. – si legge testualmente – «ai sensi della legge n. 633/1941 e relativo regolamento di esecuzione approvato con r.d. 18 maggio 1942, n. 1369».

Fatta questa premessa, appare indispensabile chiedersi quali fossero – precedentemente all’entrata in vigore del d. lgs. n. 785/1994, architettura che ha inteso risistemare l’intera materia della tutela penale di opere «coperte» dal diritto d’autore – e per quanto qui specificamente interessa, i comportamenti penalmente rilevanti in relazione ai supporti di cui si discute: ci i deve chiedere cioè che tipo di rapporto esistesse tra i vari strumenti normativi sinora menzionati, con specifico riguardo alla tutela delle musicassette.

Sotto questo profilo deve sottolinearsi come la ratio di ciascuna delle norme penali sopra citate appaia, inequivocabilmente, fosse rappresentata dalla volontà di opporsi allo sfruttamento economico di opere dell’ingegno da parte di coloro che non fossero a tale sfruttamento legittimati, per non annoverarsi tra i soggetti previsti dalla suindicata legge sul diritto d’autore, legge che specificamente appunto contempla i titolari della detta posizione giuridica attiva di profilo economico e che principalmente si identificano nei «creatori» delle opere stesse.

Non è un caso innanzitutto, a tale proposito, che l’art. 1 della menzionata legge n. 400/1985 esplicitamente contemplasse la rilevanza penale dei comportamenti cui si è fatto sopra riferimento esclusivamente ove gli stessi «cadessero» su opere cinematografiche o televisive destinate al circuito cinematografico, e non già su qualsiasi opera di tale natura: il fatto che fossero tutelate solo produzioni finalizzate ad entrare nel circuito commerciale evidenzia proprio come il bene giuridico protetto fosse costituito (e per il vero risulta esserlo ancora, con la vigente normativa) dal diritto di sfruttamento economico delle opere e non già, ad esempio, da un generico diritto al riconoscimento della paternità sulle medesime.

Ma non è un caso anche che sia nell’art. 1 della legge n. 406/1981 che nell’art. 1 della legge n. 400/1985 non ci si limitasse ad assoggettare a sanzione penale le condotte di duplicazione o riproduzione, ma si aggiungesse l’avverbio «abusivamente».

Tale termine non poteva e non può che ricollegarsi al concetto di assenza di titolo giuridico per la duplicazione e la riproduzione, e pertanto, posto che le condizioni perché si possa reputare munito di detto titolo erano e sono individuate nella legge sul diritto d’autore (legge n. 633/1941), poteva e doveva considerarsi abusivo duplicatore o riproduttore colui che avesse realizzato tali comportamenti in violazione della normativa da ultimo menzionata.

Riprodurre un’opera prodotta da altri non era, pertanto, in sé, una condotta illecita, ma lo era, alla luce dell’impianto normativo all’epoca esistente, in tanto in quanto detta riproduzione avesse come oggetto opere destinate ad essere sfruttate economicamente mediante immissione sul mercato con qualunque modalità.

Se l’intento del legislatore fosse invece stato quello di impedire la riproduzione tout court di opere prodotte da altri, sarebbe bastato assoggettare a sanzione penale il solo comportamento appunto della riproduzione, indipendentemente dalla finalizzazione o meno dell’opera alla commercializzazione.

Il fatto poi che la consumazione dei reati in materia di videocassette e musicassette sia stata ancorata all’elemento formale dell’esistenza del timbro S.I.A.E., lungi dal voler significare, come da taluni a parere dello scrivente infondatamente ritenuto, che il bene tutelato fosse costituito dal diritto, di natura fiscale, dell’ente pubblico summenzionato alla percezione del quantum economico dovutogli, cova la sua ragione nell’intendimento di individuazione dell’ente pubblico in argomento quale soggetto istituzionalmente deputato alla verifica circa l’esistenza di un diritto esclusivo allo sfruttamento economico in capo a chi volesse commercializzare una determinata opera.

Detto questo, non può notarsi come, costituendo le condotte di abusiva riproduzione e di detenzione per la vendita, contemplate sia nella legge n. 406/1981 sia nella legge n. 400/1985 (leggi concernenti rispettivamente i dischi ed i supporti analoghi e le opere cinematografiche od opere analoghe) condotte connotate da maggiore ampiezza rispetto alla vendita ed al noleggio previste dalla legge n. 121/1987 – vendita e noleggio, quindi, se così può dirsi, a «consumazione più ristretta» rispetto ai citati comportamenti di riproduzione e detenzione per la vendita -, si prospetti arduo comprendere per quale ragione, se le videocassette e le musicassette fossero in realtà già rientrate nel novero dei supporti tutelati dalle prime due leggi in questione, il legislatore avrebbe dovuto avvertire l’esigenza di introdurre la citata legge n. 121/1987, anch’essa finalizzata alla tutela dei medesimi beni giuridici cui pacificamente pare fossero teleologicamente dirette le altre due.

Riesce assai difficile, insomma, comprendere per quale morivo, se la «pirateria» avente ad oggetto videocassette e musicassette fosse già stata, prima del 1987, con tranquillante certezza penalmente reprimibile mercé l’assoggettamento a reazione sanzionatoria anche solo dell’abusiva riproduzione – vale a dire la riproduzione di tali supporti da parte di persone non legittimate alla violazione della legge n. 633/1941 -, condotta questa già idonea a fronteggiare all’origine fenomeni di abusivismo, avrebbe dovuto esservi la necessità di individuare aggiuntivamente, con la legge n. 121/1987, comportamenti contraddistinti da una punibilità più ristretta, sostanziantisi non già nella mera riproduzione ma (nel naturale succedersi nel tempo delle possibili condotte) posteriori, quali la vendita e/o il noleggio di supporti privi del contrassegno S.I.A.E. (contrassegno da apporsi proprio all’esito di una verifica circa il rispetto di quella stessa normativa già violata in ipotesi del comportamento di abusiva riproduzione).

V’è da ritenere quindi che nel 1987, avvertendo il bisogno di dare una risposta ad un fenomeno di abusivismo sempre più preoccupante – deve considerarsi a tale proposito da una parte che le videocassette e le musicassette costituiscono prodotti comparsi massicciamente sul mercato non prima degli anni ’70, e dall’altra che il nostro legislatore non ha dato prova in passato, solitamente, di particolare tempismo nel fornire risposte a fenomeni nuovi (e per questo si pensi al tempo trascorso tra l’ingenerarsi di fenomeni di abusivismo nell’ambito dei programmi per elaboratori ed il momento di adozione di una disciplina in merito, cioè il dicembre 1992, con l’art. 171-bis, legge n, 633/1941) – il Parlamento si sia determinato, in una situazione di ritenuto «vuoto normativo» per i supporti in questione, o comunque di dubbio in merito ai precisi confini – stando all’assetto normativo esistente all’epoca – dell’area di applicabilità a questi ultimi di discipline specificamente riferentesi a dischi ed opere cinematografiche, ad adottare una disciplina «particolare» per videocassette e musicassette.

D’altro canto, il fatto che il legislatore per le videocassette e per le musicassette abbia individuato il momento della consumazione dell’illecito nella vendita e nel noleggio anziché nella mera riproduzione, non sembra irragionevole, se si considera che la riproduzione a fine di lucro di tali supporti – a differenza che per le vere e proprie opere cinematografiche (le, all’origine, cosiddette «pizze»), beni cui si è ricondotto principalmente il legislatore nell’emanare il d.l. n. 9/1987, riproducibili lucrosamente anche in un solo esemplare in quanto proiettabile in locali pubblici ed a beneficio di un numero rilevante di persone – diventa ragionevolmente degna di reazione penale allorquando il prodotto dell’abusivismo (per sua natura destinato ad essere su larga scala posto che in linea generale per ciascuna videocassetta o musicassetta esiste un solo fruitore) viene in concreto immesso nel circuito di mercato senza subire il controllo dell’ente che si intendeva deputato alla previa verifica (prima dell’esanzione del diritto anch’esso economico spettantegli) circa la legittimazione allo sfruttamento commerciale dell’opera da parte di colui che intenda diffonderla.

E che tale approdo ermeneutico paia costituire esito corretto di una complessiva rivisitazione circa l’assetto normativo esistente fino all’epoca dell’introduzione della normativa ora vigente sembra al giudice dimostrato dai valori parlamentari svoltisi nell’ambito dell’iter di conversione del d.l. n. 9 del 26 gennaio 1987, e nello specifico della discussione del disegno di legge attinente appunto a tale legge di conversione.

Negli atti parlamentari in parola, ed in particolare in quello relativo alla seduta del 25 marzo 1987 della Camera dei deputati, il relatore dell’impianto normativo in argomento, on.le Giovanni Carlo Bianchini, nel fare riferimento all’art. 2 – il quale è poi risultato contenere le disposizioni attinenti alle videocassette ed alle musicassette che qui ci interessano – affermava testualmente che «l’art. 2, al comma 1, chiarisce in via di interpretazione autentica che la disciplina sanzionatoria prevista dalla legge n. 400 del 1985 (reclusione da tre mesi a tre anni e multa da lire 500 mila a lire 6 milioni) si applica alla vendita o noleggio di videocassette riproducenti opere cinematografiche e prive del contrassegno S.I.A.E. La stessa disciplina, con il secondo comma, viene estesa al mercato abusivo delle musicassette.

Tale severa disciplina sanzionatoria si rende indispensabile a causa del diffuso abusivismo riscontrato in modo particolare nel noleggio delle videocassette e nella vendita delle musicassette: sembra che il fatturato di tali operazioni si avvicini ai 4-5 mila miliardi di lire. Si tratta di un mercato abusivo da reprimere con decisione e a tale fine si è già ricorso a talune norme repressive della riproduzione abusiva di opere cinematografiche in generale (legge 20 luglio 1985, n. 400)».

Appare evidente, leggendo quanto testé riportato, come il legislatore, non reputando adeguate disposizioni dettate per le vere e proprie opere cinematografiche a fungere da strumenti anti-abusivismo anche, specificamente, per opere di tipo diverso, quali videocassette e musicassette – le prime, in realtà, riproduzioni, destinate al singolo fruitore, delle opere cinematografiche vere e proprie -, abbia reputato opportuno chiarire quali condotte fossero da ricondursi a penale rilevanza, localizzando quindi come comportamenti punibili esclusivamente quelli di vendita di musicassette, e di vendita e noleggio di videocassette, ove non munite di timbro S.I.A.E.

Laddove una disposizione viene emanata, come nel caso di specie, in chiave di interpretazione autentica, la ragione è da individuarsi nella volontà di determinare una volta per tutte, superando ogni dubbio interpretativo in merito, i contorni della disciplina vigente in una certa materia, e l’effetto è che tale momento l’unico assetto normativo esistente è quello – e non quello più altri, sennò non di interpretazione autentica si tratterebbe risultante dall’introduzione della disposizione medesima.

Accertato sulla base del percorso logico sin qui dipanato come perlomeno successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 9/1987, convertito nella legge n. 121/1987 ripetutamente citata, quella contenuta in tale strumento normativo fosse l’unica disciplina applicabile all’abusivismo in materia di videocassette e musicassette, e come pertanto per le videocassette le uniche condotte aventi penale rilevanza fossero la vendita ed il noleggio mentre per le musicassette l’unico comportamento avente penale rilevanza fosse la vendita, deve a questo punto passarsi a valutare se effettivamente le condotte specificamente addebitate agli odierni giudicandi siano contraddistinte da penale rilevanza.

La Suprema Corte, a tale proposito, con pronunce della II sezione penale (4 marzo 1997, n. 1626) e della III sezione penale (16 maggio 1997, n. 2090), aveva sostenuto l’irrilevanza penale delle condotte di vendita c/o noleggio di videocassette e musicassette prive del timbro S.I.A.E., con specifico riguardo all’asserita assenza del regolamento di esecuzione la cui emanazione invece la legge n. 633/1941, quale oggi vigente, contemplerebbe.

Questo poiché da una parte vuoi la normativa vigente fino al 31 dicembre 1994, vuoi l’attuale normativa assoggettavano ed assoggettano a reazione penale le condotte di vendita c/o noleggio di videocassette e musicassette ove i supporti in parola non siano «contrassegnati dalla S.I.A.E. ai sensi della legge 22 aprile 1941, n. 633, sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, e del relativo regolamento di esecuzione» (regolamento che sempre secondo le su enunciate sentenze, pur essendo previsto, non sarebbe stato emanato).

E questo poiché dall’altra metà, mancando il regolamento, la legge in questione nulla stabilirebbe in ordine all’apposizione del contrassegno stesso per videocassette e musicassette (e questo anche comprensibilmente quanto a quello del 1942, atteso che fino a tale epoca non esistevano né le une né le altre).

Atteso che sia le disposizioni vigenti fino all’entrata in vigore dell’attuale normativa, sia la normativa quale risultante dall’attuale, complessiva impalcatura, prevedevano e prevedono la punibilità della vendita dei supporti fonografici e cinematografici in questione solo in quanto mancanti del contrassegno apposto ai sensi della legge sul diritto d’autore e del relativo regolamento (l’espressione «ai sensi» non può, ad opinione di chi scrive, che interpretarsi come «secondo quanto stabilito»), e dato che all’interno dell’impianto normativo che è da reputarsi esistente non è data rinvenirsi disciplina alcuna in ordine alle modalità di apposizione dei contrassegni, sarebbe assente, in definitiva, secondo i detti Supremi giudici, la disciplina sulla materiale apposizione del marchio S.I.A.E., e pertanto assenti sarebbero tutti li elementi sui quali fondare il disvalore del fatto e caratterizzarlo rispetto ad altre ipotesi di mero inadempimento.

Parte della condotta da ritenersi conforme alla legge, e qualunque distonìa rispetto alla quale si tradurrebbe in un comportamento di rilevanza penale, non risulterebbe in concreto descritta dall’assetto normativo stesso: il legislatore avrebbe previsto la punibilità della vendita di supporti non portanti il marchio S.I.A.E. senza prevedere come il medesimo dovesse essere dalla stessa S.I.A.E. apposto, sicché la condotta tipizzata verserebbe tuttora in una situazione di incompletezza dal punto di vista descrittivo.

E ciò è tanto vero, secondo la Suprema Corte, che di fatto il marchio su videocassette e musicassette viene apposto dall’ente pubblico in discorso secondo le modalità a suo tempo concordate con l’A.F.I. (Associazione fonografici italiani) attraverso il perfezionamento di una pattuizione avente valore di natura privatistica e che conseguentemente, poiché non autorizzata dalla legge, non può reputarsi corredata da tutela penale.

Non può non notarsi, a tale riguardo, come quindi gli stessi soggetti interessati all’applicazione della normativa, resisi conto della lacuna legislativa sullo specifico punto dell’indicazione di modalità di apposizione del timbro S.I.A.E. su videocassette e musicassette, abbiano pensato di trovarvi rimedio attraverso una via contrattuale.

Va a questo punto, parere dello scrivente – ed incidenter tantum -, precisato che la Suprema Corte ha inquadrato il problema della lacuna normativa di cui si parla, ed arguibilmente riferendosi in primo luogo alla attuale disciplina, nell’ambito dell’istituto della cosiddetta «norma penale in bianco».

Nella norma penale in bianco, però, la disposizione di legge introduce la sanzione, demandando il proprio completamento, a livello di precetto, ad altre e successive fonti normative.

Originariamente, invece, l’art 2, legge n. 21/1987 non demandava (ed egualmente l’art. 171-ter) ad una successiva norma la delineazione del precetto – consistente nella determinazione delle modalità di apposizione del timbro S.I.A.E. -, ma richiamava già le disposizioni della legge n. 633/1941 e del relativo regolamento, in realtà, a differenza di ciò che la Suprema Corte nelle due decisioni testé rammentate ha asserito, già esistente (r.d. 18 maggio 1942, n. 1369) dando per scontato, come visto erroneamente secondo ciò che hanno sostenuto i giudici di legittimità, che le stesse disposizioni disciplinassero la materia.

Essendovi, in concreto, nella situazione normativa qui presa in esame, ad avviso della Corte di cassazione, un richiamo ad una disciplina in realtà inesistente, non pare ci si dovesse riferire alla nozione di norma penale in bianco, ma, bensì, alla fattispecie del rinvio errato ad una fonte normativa preesistente.

Questo precisato, ricondotta l’anomalia di cui si è ora parlato al profilo del richiamo errato a normativa in effetti inesistente e non al problema della cosiddetta «norma penale in bianco», e riportandoci al «problema-cardine» del presente procedimento, lo scrivente, all’esito di una lettura vuoi della legge n. 633/1941 vuoi del connesso regolamento di esecuzione, in effetti esistente fin dal 1942, reputa di dover aderire, seppur per la ragione che subito verrà esposta, alla conclusione abbracciata dalla Suprema Corte con le sentenze testè compendiate: e l’impalcatura normativa complessiva esistente fino al 31 dicembre 1994, e quella esistente all’epoca dei fatti di cui qui si discute non contemplavano e non paiono contemplare, infatti, modalità alcuna per l’apposizione del contrassegno S.I.A.E. su videocassette e musicassette, o comunque su prodotti fonografici, e pertanto si deve all’imperfezione legislativa il fatto che si sia prevista la punibilità della mancata apposizione di un contrassegno le cui modalità di applicazione non sono mai state specificamente dettate.

Anche per ciò che riguarda il profilo in questione si palesa di importante aiuto la lettura dei lavori parlamentari di discussione della legge di conversione del d.l. n. 9/1987.

Infatti, sempre nel corso della seduta del 25 marzo 1987 cui si è già fatto riferimento, l’onorevole Andrea Manna, nel dichiararsi contrario alla conversione del decreto, testualmente dichiarava: «Innanzi tutto l’art. 2 prevede l’applicazione delle sanzioni penali considerate nelle richiamate leggi nn. 400 e 406 nei confronti di chiunque commerci videocassette e musicassette non contrassegnate dalla S.I.A.E., quasi che esista già nell’attuale normativa una disposizione che attribuisca alla S.I.A.E. il compito ed il potere di appone contrassegni su dischi, musicassette e videocassette.

Per contro, la legge 22 aprile 1941, n. 633 (sulla protezione del diritto d’autore) ed il relativo regolamento di esecuzione nulla dispongono in merito. La facoltà della S.I.A.E. di apporre contrassegni è prevista soltanto per gli esemplari di opere letterarie, scientifiche, didattiche e musicali «di pubblico dominio in volumi» (artt. 177 e 178 della legge e 52 del regolamento). Il riferimento al contrassegno, al sensi della legge n. 633, è pertanto erroneo per le musicassette e videocassette».

Ed ancora: «Non si può affermare, insomma, che sono assoggettabili alle sanzioni di legge coloro che commerciano video o fonocassette, per il resto assolutamente conformi alle leggi, solo perché non portanti contrassegni istituiti con il semplice riferimento ad una norma che tali contrassegni non prevede.

La legge che convertisse il presente decreto, con l’art. 2 in esso contenuto, (innanzitutto) verrebbe ad applicare una sanzione prima ancora che esista il relativo precetto, solo individuabile in norme – quelle sul diritto d’autore e quelle sulla S.I.A.E. – che precisino e, se necessario, modifichino l’attuale previsione sulle modalità di tutela».

Va preso atto, inoltre, che, lungi dal ritenere peregrine tali osservazioni – analoghe, in buona sostanza, a quanto sostenuto dieci anni dopo dalla Suprema Corte con le pronunce cui si è fatto sopra riferimento l’allora Sottosegretario di Stato per l’industria, il commercio e dell’artigianato, Nicola Maria Sanese, rappresentante del Governo che il decreto in discussione aveva emanato, testualmente anch’esso dichiarava, riferendosi all’intervento dell’onorevole Manna: «Mi rendo conto che egli ha inteso porre un problema più generale che presuppone un intervento volto a perseguire le azioni illecite in questo campo.

Il decreto-legge, però, non si pone questa finalità in quanto vuole porre in essere soltanto un primo intervento mirato ed urgente in un settore in cui l’abusivismo è molto diffuso. In ogni caso, il contributo offerto dal collega Manna nella discussione generale sarà tenuto presente dal Governo, in parte anche nell’emanazione dei decreti attuativi del provvedimento nonché in quello più organico che dovrà certamente essere emanato».

Nessun decreto attuativo in realtà risulta essere stato emanato e la successiva normativa, intervenuta a decorrere dal 1° gennaio 1995 non ha neppur’essa, come arguibilmente sostenuto dalla Suprema Corte con le pronunce di cui si è detto, risolto i problemi finora considerati.

Il complesso di osservazioni sin qui esposte non può che condurre a concludere che il legislatore, nell’emanare il d. lgs. n. 9/1987, come visto adottato sulla base di un ritenuto carattere d’urgenza e nel tentativo di realizzare un «primo intervento» atto a fronteggiare il fenomeno della pirateria avente ad oggetto videocassette e musicassette, non abbia valutato con sufficiente attenzione il panorama normativo sul quale il medesimo era destinato ad innestarsi, dando luogo quindi alla determinante inesattezza, che non poteva non influire negativamente sulla sua stessa applicabilità, cui si è riferita la Cassazione penale, seppure per ragioni diverse da quella che qui si ritengono fondate, nelle già più volte menzionate sentenze.

Giova inoltre, ad avviso di chi scrive, svolgere un’ultima osservazione: il fatto che per un certo numero di anni la giurisprudenza abbia ritenuto applicabile la normativa contenuta nella legge n. 121/1987 non costituisce elemento di per sé univocamente indicativo della bontà della linea interpretativa abbracciata, come invece sostenuto da taluno.

Ciò soprattutto in una situazione nella quale i profili di anomalia qui discussi non risulta siano mai stati oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza, ed in una situazione nella quale, come accade spesso nella pratica del diritto e come ognuno coinvolto quotidianamente in tale pratica sa, una volta assestatasi una determinata pratica giurisprudenziale è talvolta assai arduo – soprattutto in materie ritenute di non particolare importanza poiché non tangenti interessi considerati di primaria rilevanza costituzionale – introdurre elementi dialettici in grado vuoi di metterla in discussione, vuoi, ed ancor più, di sostituirla.

Qui giunti, potrebbe sembrare essere stato inutile avere dato conto del divenire, nel tempo, della disciplina riguardante i supporti nel presente procedimento trattati, dato che i fatti per i quali è stata esercitata l’azione penale nel presente procedimento con specifico riguardo al capo a), sono stati, come visto, inquadrati dal pubblico ministero nell’alveo della «nuova normativa» di cui al suindicato d. lgs. n. 685/1994, e precisamente dell’art. 171-ter, d. lgs. 16 novembre 1994, n. 685.

Va invece sottolineato che la disponibilità, anche in chiave dinamica, di un quadro avente ad oggetto la realtà normativa precedente si prospetta, ad opinione del giudice, di determinante ausilio per l’interpretazione pure delle disposizioni attualmente vigenti e che si reputano applicabili nel caso di specie.

Va a detto riguardo osservato come il testo normativo da ultimo citato si sia sostanzialmente limitato a riprodurre, inserendole in un unico testo, le disposizioni precedentemente vigenti, concernenti le opere cinematografiche e discografiche, disseminate fino a quel momento nell’ordinamento, ed in particolare nelle leggi all’inizio della presente motivazione menzionate.

La Suprema Corte – nel premettere come il coacervo delle disposizioni prima in vigore non soltanto si presentasse palesemente disorganico ma incidesse negativamente, per difetti di coordinamento, sulla stessa unitarietà della disciplina fondamentale del diritto d’autore – ha già avuto modo di affermare questo (Cass. pen., sez. III, 28 aprile 1998, n. 1511), asserendo testualmente che «è stato trastuso nella legge fondamentale n. 633/1941 il contenuto di tali norme abrogate».

Sennonché, l’inserimento dell’art. 171-ter nell’originario corpo della legge n. 633/1941 non è stato accompagnato da modifica alcuna, nello specifico, quanto al problema della previsione delle modalità di apposizione del timbro S.I.A.E. tali modalità – si dà evidentemente per scontato da tale norma – sono quelle indicate dalla legge medesima e dal relativo regolamento più volte menzionato nella presente ordinanza, modalità che, come osservato da chi scrive, non sembrano dettate per le opere cinematografiche e fonografiche.

A questo riguardo, si è sostenuto da parte della Suprema Corte in altre pronunce successive alle due succitate, ed evidentemente allo scopo di trovare un ancoramento normativo per non lasciare prive di sanzione condotte obbiettivamente pregiudizievoli per interessi degni di essere tutelati dall’ordinamento giuridico, che l’art. 12 del Regolamento n. 1369 del 18 maggio 1942, di esecuzione della legge n. 33/1941, conterrebbe la descrizione delle modalità di apposizione del timbro sui supporti di cui trattasi, o meglio opererebbe un rinvio, per la specifica disciplina avente ad oggetto le modalità di detta apposizione, alla pattuizione perfezionata tra associazioni sindacali interessate e S.I.A.E. (nel 1942 denominato E.D.A.).

L’art. 12 del regolamento di cui si è testé detto fa espressamente riferimento, però, quale norma della quale esso si pone come strumento esecutivo, all’art. 123 della legge.

Quest’ultimo non è inserito in una parte del testo di legge che abbia genericamente ad oggetto qualunque opera coperta dal diritto d’autore, ma è collocato nel titolo III, capo II, sezione III della legge, che concerne il contratto di edizione, e quindi le opere letterarie.

Secondo l’avviso della Suprema Corte quale espresso con la sentenza n. 1511 del 28 aprile 1998 nonché con la sentenza e 2217 del 16 giugno 1998, posto che il comma 3 del detto art. 12 del Regolamento stabilisce che le categorie di opere che devono essere fatte oggetto del contrassegno in applicazione delle disposizioni di legge e in ispecie degli artt. 122 e 130, nonché le modalità del contrassegno medesimo e l’indicazione di chi debba sopportare la relativa spesa, possono essere stabilite anche da accordi economici collettivi tra le associazioni sindacali interessate, salvo in ogni caso il diritto dell’autore di contrassegnare con la propria firma autografa ciascun esemplare dell’opera ai sensi del comma precedente, nel termine «categorie» dovrebbero ricomprendersi anche le categorie «videocassette e musicassette».

Ma che l’art. 12 si riferisca, invero, esclusivamente alle opere contemplate nella sezione III suindicata, e quindi a quelle letterarie – a differenza di quanto sostenuto dalla Suprema Corte con ambedue le sentenze di cui qui da ultimo si è fatto cenno – appare dimostrato proprio da quanto previsto ai commi 2 e 3, laddove viene fatto salvo il diritto dell’autore di contrassegnare con la propria firma autografa ciascun esemplare dell’opera, modalità per il vero dalla stessa Suprema Corte esplicitamente reputata – con la preindicata sentenza n. 1511/1998 – attuabile solo per le opere letterarie su supporto cartaceo.

Proprio quindi la parte dei commi 2 e 3 che la Suprema Corte legge in chiave di disposizione derogatrice rispetto ad un regime che si applicherebbe a qualunque opera tutelata dalla legge n. 633/1941, costituisce, ad opinione del giudicante, la dimostrazione più evidente che l’intera impalcatura della norma in parola attiene alle opere letterarie: se veramente la disciplina in argomento, del comma 3, riguardasse tutte le opere tutelate, mal si comprende perché venga fatto comunque formalmente ed inderogabilmente salvo sia nel comma 2 che nel comma 3 medesimo un diritto, in capo all’autore, che la stessa Cassazione penale ritiene esercitabile solo per le opere letterarie.

Inoltre, se il legislatore avesse inteso riferirsi a qualsiasi tipo di opera, non è dato dedursi per quale motivo si sia determinato ad inserire una clausola di tipo generale all’interno di una disposizione esplicitamente richiamante, come norma cui dare esecuzione, un articolo della legge n. 633/1941 pacificamente concernente le opere letterarie.

Né può ad opinione di chi scrive fondatamente sostenersi che avendo il comma 3 di cui trattasi parlato di categorie di opere al plurale e non di una sola categoria, il tenore della norma vedrebbe come proprio oggetto anche opere diverse da quelle letterarie: infatti basta dare lettura agli artt. 122 e 130 della legge, richiamati dal già più volte menzionato comma 3 dell’art. 12 del Regolamento, per rendersi conto che le stesse opere letterarie sono ivi divise in svariate categorie, di tal che le categorie cui ha riguardo non possono che essere quelle, appunto svariate, comunque sempre di genere letterario.

Nemmeno, poi, all’interno vuoi del comma 2 vuoi del 3, sono ravvisabili espressioni di carattere, sotto un profilo sintattico, avversativo, di tal che si possa evincere che tali parti della nonna siano rivolte a fattispecie diverse da quelle prese in esame dal comma 1: al contrario, il tenore dei commi successivi al primo appare del tutto coerente con la fattispecie contemplata dal comma iniziale che li precede.

Tra l’altro, tutto ciò si dice in una situazione nella quale la legge n. 633/1941 già originariamente non si è, per così dire, dimenticata di occuparsi delle opere cinematografiche, ma le ha contemplate, agli artt. 4430, 61 della legge n. 633/1941 e 32, 34, 31 e 52 del Regolamento n. 1369/1942, senza peraltro nulla dire in merito all’apposizione di timbro S.I.A.E. sulle stesse: è difficile capire, come suaccennato, perché per l’apposizione del timbro S.I.A.E. sulle opere in parola il legislatore dovrebbe essersi determinato a non fare cenno alcuno nella parte normativa nella quale di dette opere trattava, per poi fare riferimento invece a tali modalità di apposizione in un settore dell’impianto normativo principalmente concernente opere di natura del tutto diversa.

Pure quindi la rivisitazione della diagnosi realizzata nella prima parte della presente ordinanza alla luce delle osservazioni esposte dalla Cassazione penale con le sentenze del 28 aprile 1998 e del 16 giugno 1998 non riesce a condurre lo scrivente a traguardi ermeneutici diversi da quelli cui si è precedentemente addivenuti.

Anzi, il fatto che vi sia arguibile contraddizione addirittura tra pronunce della Cassazione che ritengono l’idoneità della legge attuale a dare indicazioni in merito alle modalità di apposizione del timbro S.I.A.E. (la n. 1511/1998 afferma che il diritto comunque riconosciuto dai commi 2 e 3 dell’art. 12 di apporre la sottoscrizione sull’esemplare dell’opera da parte dell’autore non può che riguardare le opere letterarie, mentre la n. 2217/1998 non ha ritenuto di operare la medesima affermazione) consente di avere il «polso» della situazione e dei consistenti sforzi, che forse non è temerario ipotizzare eccessivi, che i massimi giudici si sono sin qui imposti per salvare l’applicabilità di disposizioni (quelle di cui all’art. 2, legge n. 121/1987 e la lettera c) dell’art. 171-ter, d.lgs. n. 685/1994) che non sembra inesatto definire mal concepite.

Una volta preso atto che in materia penale l’attività ermeneutica deve essere contraddistinta come in nessun altro settore dell’ordinamento da caratteri di cautela, e che il giudice, data la delicatezza del principale interesse in giuoco in tale settore (la libertà dei consociati), non possa essere tenuto a compiere sforzi logici eccessivi per dare applicabilità a norme cromosomicamente mal congegnate, qualora l’anomalia rilevata si palesi importante ed obbiettivamente, seguendo il testé menzionato criterio di cautela, incolmabile, il giudice deve prendere atto, ad avviso dello scrivente, dell’inapplicabilità delle norme.

Questo tanto più ove ci si trovi in una situazione, come quella di cui trattasi, nella quale basterebbe un intervento legislativo agevolmente realizzabile e di grande semplicità, avente ad oggetto le modalità di apposizione di un timbro.

Svolte tutte tali osservazioni, pare logico ribadire – e non sembra inutile ripetere anche che attualmente nulla è cambiato rispetto alla situazione normativa preesistente – che l’espressione «vende musicassette non contrassegnate dalla Società italiana degli autori ed editori (S.I.A.E.) ai sensi della legge 22 aprile 1941, sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, e del relativo regolamento approvato con r.d. 18 maggio 1942, n. 1369» sia univocamente significativa dell’indispensabilità di una delineazione normativa, pure specificamente per videocassette e musicassette, delle modalità di apposizione del timbro S.I.A.E., e che pertanto tali modalità non possano che venire ad assumere la dignità di elemento essenziale della fattispecie e quindi di elemento costitutivo del reato.

Ad analogo traguardo ermeneutico si deve pervenire, ad avviso dello scrivente, in relazione anche ai compact-disks, atteso che trattasi di supporti riconducibili alla categoria di quelli menzionati nella lettera c) dell’art. 171-ter quale oggi vigente, in ordine alle quali il legislatore si e determinato ad usare l’espressione ora riportata.

Ma se questo elemento è assente nell’impianto normativo applicabile al caso di specie, allora – e l’approdo è ancora una volta, inevitabilmente, quello cui si e prima giunti – manca un elemento costitutivo del reato ed il comportamento menzionato al capo a) non può reputarsi rientrare in un’area di penale rilevanza.

L’insieme degli elementi valutati nel presente provvedimento induce il giudicante, in definitiva, a ritenere che la carenza normativa relativa alla individuazione delle modalità di apposizione del timbro S.I.A.E., a fronte dell’esistenza della disposizione contenuta nell’art. 171-ter, lettera c) – norma da reputarsi erede in toto dell’art. 2, d.l. n. 9/1987, convertito nella legge 121/1987 -, disposizione che contempla la sanzionabilità penale di condotte di cessione di videocassette e musicassette laddove non contrassegnate dalla S.I.A.E. ai sensi della legge sulla protezione del diritto d’autore e del relativo regolamento di esecuzione, si traduca in un’essenziale carenza di focalizzazione dei contorni della fattispecie punibile.

Va a questo punto precisato, sulla scorta del complesso di considerazioni sin qui stese, che l’unica disposizione teoricamente attagliantesi al caso di specie e quella della detta lettera c) dell’art. 171-ter, e non la precedente lettera b), attinente, ad opinione del giudicante, e sempre in forza dell’iter logico sin qui dispiegatosi, a supporti diversi da quelli dei quali qui trattasi.

Tra l’altro, ad abundantiam quanto al complesso di elementi di suffragio rispetto alla fondatezza del convincimento cui si e qui reputato di pervenire, va sottolineato come già con legge 22 maggio 1993, n. 159, siano stati abrogati gli artt. 178 della legge n. 633/1941 e 52, 53, 54, 55 e 56 del Regolamento n. 1369/1942, disposizioni uniche, tra le quali (e peraltro, come sopra visto, qui considerate disciplinare solo la fattispecie delle opere letterarie, scientifiche, didattiche e di pubblico dominio) era possibile rinvenire una regolamentazione nell’originario impianto normativo (senza rinviare a pattuizioni tra S.I.A.E. ed altri soggetti) delle modalità di apposizione del timbro S.I.A.E.

Anche le disposizioni di legge, quindi che, uniche, originariamente si occupavano dell’apposizione del timbro non fanno neppure più parte dell’ordinamento giuridico, sicché si dovrebbe rivolgere lo sguardo, per desumere come apporre i timbri S.I.A.E. su musicassette e videocassette, su norme ormai giuridicamente non più esistenti, e pertanto pure sotto questo profilo appare palese la determinante carenza normativa precedentemente individuata.

Ma se non esiste esatta delineazione del comportamento realizzando il quale si perpetra l’illecito penale di cui qui si tratta, la conclusione non può che essere la riconducibilità della condotta addebitata al Libera all’area dell’irrilevanza penale, di talché il medesimo dovrebbe essere mandato assolto dall’illecito ascrittogli al capo a) perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato.

Questa conclusione non potrebbe poi non avere effetti pure sull’altra ipotesi accusatoria, atteso che in essa si menzionano, in relazione alla delineazione degli illeciti presupposti, proprio le norme sin qui esaminate.

Giunto a questo punto, il giudice non può, però, non tenere primariamente presente il fatto che ormai la giurisprudenza assolutamente dominante intervenuta successivamente alle due pronunce della Suprema Corte del 1997 inizialmente citate si è posta nella scia delle due pronunce invece di onore esattamente contrario intervenute nel 1998 e cui si è fatto sopra riferimento, con le quali è stata reiteratamente affermata la rilevanza penale della fattispecie di cui al capo a) dell’attuale architettura accusatoria, considerandosi l’art. 12 del Regolamento succitato disposizione idonea all’indicazione dei modi di apposizione del timbro S.I.A.E. su videocassette e musicassette.

La norma «vivente», quindi, è quella concepita dalla Suprema Corte nelle sue ultime, ripetute sentenze, e pertanto quella che vede come norma integrativa della fattispecie penale proprio l’art. 12 testé menzionato, integrazione idonea a disegnare compiutamente gli elementi essenziali del reato.

Se è pur vero, pertanto, che la Corte costituzionale non può essere chiamata ad esprimersi su questioni di profilo esclusivamente ermeneutico, di sola competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria, è però altrettanto vero che allorquando il, per così dire, «combinato disposto» di lettera della legge e di applicazione giurisprudenziale della stessa viene a creare una certa, ormai cementata realtà normativa, non pare più corretto parlarsi di problematica di carattere meramente interpretativo ma sembra giusto parlarsi di esistenza di un’ormai consolidata norma di legge, per tale ragione assoggettabile, ove si ritenga ve ne siano le ragioni, al vaglio di legittimità costituzionale della Consulta.

Ciò annotato deve darsi atto di come lo scrivente – in forza dell’insieme di considerazioni sin qui esposte -, dovendo a suo avviso essere esclusivamente uno strumento normativo a determinare le modalità di apposizione del timbro S.I.A.E., non potendosi però leggere l’art. 12 del Regolamento quale disposizione applicabile pure alle videocassette ed alle musicassette, e non esistendo altra disposizione che si occupi di tali modalità di apposizione, ritenga che l’attuale realtà normativa rappresentata dall’art. 171-ter, lettera c) della legge n. 633/1941 non obbedisca, per assenza della indispensabile descrizione delle modalità del timbro S.I.A.E. timbro la cui assenza comporterebbe, in ipotesi di vendita, od anche solo di tentata vendita, la reazione penale al costituzionale principio di tassatività della fattispecie penale.

In definitiva è opinione del giudice si debba denunciare alla Consulta, poiché costituzionalmente illegittimo, l’art. 171-ter, lettera c), della legge n. 633/1941, quale attualmente vigente, per violazione del principio di tassatività delle fattispecie penali previsto dall’art. 25, comma 2 della Carta costituzionale, mancando la determinazione normativa, cui fa riferimento la disposizione in questione, delle modalità di apposizione del timbro S.I.A.E. in quest’ultima citato.

Allo scopo di portare all’attenzione della Consulta la questione qui sollevata deve sottolinearsi, come d’altra parte già accennato, che non fa difetto il requisito della rilevanza della questione medesima, dato che un suo accoglimento condurrebbe all’emissione dì una pronuncia assolutoria, soluzione non adottabile seguendo la linea interpretativa assolutamente univoca allo stato esistente a livello giurisprudenziale.

P.Q.M.

Visto l’art. 23, terzo comma della legge 11 marzo 1953, n. 87, e ritenuta la rilevanza della questione ai fini della decisione;

Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, previa, a cura della cancelleria, notifica della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicazione del provvedimento medesimo ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

 

Milano, addì 5 novembre 1999.