28 SETTEMBRE 1987
SENTENZA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZIONE III PENALE
Svolgimento del processo. – Con denunce-querele del 13 e del 14 aprile 1987 Eugenio Parise, nella qualità di amministratore unico della s.r.l. Telepromozione e Teleradiocentromusica con sede in Roma, esercenti imprese emittenti televisive in ambito locale, la prima con la denominazione «Canale 7», occupando il canale televisivo 54 Uhf, la seconda con la denominazione «Canale 21»; occupando il canale televisivo 21 Uhf, entrambe ripetendo, nelle fasce orarie non utilizzate per programmi propri, i programmi di Tele Montecarlo (Tmc), ha esposto al Pretore di Roma che la s.r.l. Tvr Voxon, della quale è amministratore Di Stefano Francesco, con apparati siti in Monte Cavo, già sequestrati per analoghi fatti dallo stesso pretore e dissequestrati su cauzione, il 10 e 11 aprile 1987 aveva ripreso ad interferire nelle trasmissioni dei canali 7 e 21 con propri programmi irradiati con la sigla Telecit.
Il pretore, con decreto del 24 aprile 1987, ha disposto il sequestro degli apparati trasmittenti delle emittenti televisive Telecit e Tvr Voxon nel procedimento contro il Di Stefano, imputato dei reati di cui agli art. 392, 513, 635 c.p. e 195 d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156, e il Tribunale di Roma, il 2 maggio 1987, in sede di riesame, ha confermato il sequestro individuando nel fatto la violazione dell’art. 23 d.p.r. n. 156 del 1973 che punisce il fatto ai sensi dell’art. 635, n. 3, c.p.
Avverso tale provvedimento il Di Stefano ha proposto ricorso per cassazione, denunciando il mutamento della contestazione dell’accusa operato dal tribunale con il ritenere l’ipotesi di reato di cui all’art. 23 d.p.r. 156/73, comunque non configurabile, cosí come non è ravvisabile il danneggiamento (di cui all’art. 635 c.p.) di onde radiotelevisive nelle interferenze tra emittenti televisive; il ricorrente inoltre ha lamentato l’omessa applicazione degli art. 51, 52 c.p. in quanto le emittenti interferite sono in realtà ripetitori non autorizzati di programmi televisivi esteri, in situazione quindi di illeggittimità (art. 38 l. 14 aprile 1973 n. 156, come sostituito dall’art. 45 l. 103/75), che, se da una parte non è valevole per il preuso a loro favore del canale di emissione in ambito locale, dall’altro non impedisce che altri faccia uso di tale canale per affermare un proprio diritto ed autotutelarlo.
In merito a tali censure le società Telepromozioni e Teleradiocentromusica, titolari delle emittenti Canale 7 e Canale 21, costituite parte civile nella persona dell’amministratore unico Parise, hanno rilevato che non vi è stata alcuna immutazione del fatto da parte del tribunale, che ha dato semplicemente ad esso una diversa configurazione giuridica, fatto che integra il reato di cui all’art. 635 c.p. e non quella di cui all’art. 23 d.p.r. n. 156, come ritenuto dal tribunale; hanno osservato inoltre che non può configurarsi alcuna scriminante a favore del ricorrente le cui trasmissioni sono successive al 1° ottobre 1984, mentre quelle delle esponenti sono anteriori e, quindi, legalizzate (d.l. 6 dicembre 1984 n. 807, convertito in l. 4 febbraio 1985 n. 10, art. 3, 1° comma), e che comunque Canale 7 e Canale 21 non sono in situazione di illiceità perché i loro impianti non sono ripetitori, ma trasmettitori che aggiungono una programmazione propria a quella di Tmc trasmessa «in differita».
Motivi della decisione. – Per risolvere le questioni proposte a questa Suprema corte con gli esposti motivi di censura avverso l’ordinanza del Tribunale di Roma in sede di riesame del decreto di sequestro del Pretore di Roma degli apparati trasmittenti delle emittenti televisive Telecit e Tvr Voxon, interferenti nelle trasmissioni di «Canale 7» e «Canale 21», conviene innanzi tutto precisare i limiti e l’ambito del procedimento di riesame delle misure di coercizione processuale, quali si sono delineati nella giurisprudenza di questa Suprema corte.
Tale procedimento è caratterizzato da peculiari note di autonomia, rispetto al procedimento principale, ed è volto al controllo della correttezza della disposta cautela. A tal fine, e senza vincolo per il giudice del procedimento principale, il giudice del riesame, che certo non può verificare la fondatezza nel merito del reato imputato, deve accertare, nei limiti in cui è apprezzabile, la rispondenza della fattispecie concreta a quella legale ipotizzata dando ad essa la qualificazione giuridica appropriata purché non sia mutato il fatto contestato (cfr., tra le altre, Cass., sez. I, 27 ottobre 1986, Ferrario; sez. I 21 ottobre 1983, Filippi, Foro it., 1984, II, 113; sez. VI 6 agosto 1986, Leonzi; sez. V 10 maggio 1984, Losuriello, ibid., 440; sez. I 11 luglio 1985, Pangallo, id., Rep. 1986, voce Libertà personale dell’imputato, n. 220; sez. I, 15 gennaio 1985, Falcioni, ibid., voce Sequestro penale, n. 36; sez. V 11 ottobre 1985, Fresi, ibid., voce Libertà personale dell’imputato, n. 218; sez. III 23 febbraio 1987, Gargiulo). Inoltre: il giudice del riesame può integrare la motivazione eventualmente lacunosa del provvedimento impugnato e il vizio di legittimità potrà rilevarsi solo quando la ragioni del mezzo di coercizione disposto non emergono dalla considerazione unitaria dei due provvedimenti (Cass., sez. I, 13 giugno 1985, Ricci, ibid., n. 232).
Nel caso in esame il decreto di sequestro del pretore, che si limita ad indicare i reati imputati (art. 392, 513, 635 c.p. e 195 d.p.r. 156/73) e a rilevare che le emittenti Telecit e Tvr Voxon avevano ripreso ad interferire nelle trasmissioni di Canale 7 e Canale 21, sicché si rendeva necessario il sequestro a fini probatori e preventivi, è stato integrato dall’ordinanza del tribunale che ha dato al fatto una propria configurazione giuridica, argomentando in proposito.
Orbene, esaminando il primo motivo di ricorso, si deve immediatamente rilevare che non vi è immutazione del fatto, perché il fatto di interferenza non è stato modificato, ma ad esso è stata data semplicemente una configurazione giuridica diversa da quelle date dal pretore, sicché la censura del ricorrente è priva di pregio; inoltre i fini preventivi del sequestro, enunciati dal tribunale, non sono contestabili nella loro evidenza, e invero non sono stati posti in discussione.
Quella che è discussa invece è la configurazione giuridica del fatto.
Il tribunale ha ravvisato nel fatto, chiaro e incontroverso nei termini di interferenza di alcune emittenti nelle trasmissioni irradiate da altre, il reato di cui all’art. 23 d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156 (approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni) che punisce ai sensi dell’art. 635, n. 3, c.p. chiunque esplichi attività che rechi, in qualsiasi modo, danno ai servizi postali e di telecomunicazioni ed alle opere ed agli oggetti ad essi inerenti, ma tale qualificazione è erronea perché, data la collocazione della norma, essa si riferisce esclusivamente ai servizi pubblici, postali e di telecomunicazioni ed alle loro opere ed oggetti inerenti.
Da tale norma, poi, nessuna indicazione può trarsi, di alcun segno, per la qualificazione della fattispecie concreta in esame. E ciò perché le due ipotesi alternative del danno non sono dissimili tra loro, l’una riguarda i servizi postali e di telecomunicazione e l’altra le opere e gli oggetti ad essi inerenti, sicché è evidente che il richiamo alle sanzioni del danneggiamento aggravato (art. 635, n. 3) è fatto esclusivamente quoad poenam, in ragione cioè della funzione dei servizi e delle opere e non della loro natura, sicché può ricavarsi da esso solo un significato di omogeneità di disvalore offensivo tra il reato richiamante e quello richiamato. Per esempi di questo tipo, con richiami quoad poenam che non consentono di costruire il reato richiamante sul paradigma di quello richiamato per la sanzione, ma che rendono evidente solo l’omogeneità offensiva voluta in tal modo significare dal legislatore, si pensi, tra gli altri, al c.d. furto di cose d’antichità e d’arte, di cui all’art. 67 l. 1° giugno 1939 n. 1089, che richiama per la sanzione l’art. 624, c.p., alla repressione della condotta antisindacale di cui all’art. 28 l. 20 maggio 1970 n. 300, che rinvia alla sanzione dell’art. 650 c.p.
Esclusa quindi l’applicabilità dell’art. 23 d.p.r. cit. è immediata la esigenza di verificare se al fatto si attagli la figura del danneggiamento comune, concettualmente evocata dal fatto di interferenza, già ipotizzata dal pretore nel suo decreto di sequestro e della quale le parti civili affermano sussistere gli estremi.
A tal fine conviene precisare che le trasmissioni televisive consistono in energia prodotta da una emittente. Le onde radioelettriche, emesse in una banda definita, sono energie elettriche che fungono da veicolo del segnale video appostovi dall’emittente mediante impressione sulle stesse, con un processo di modulazione, di un determinato messaggio.
Trattandosi quindi di energia prodotta, occorre esaminare se essa possa considerarsi cosa, ai fini della configurabilità del danneggiamento di cui all’art. 635 c.p., tenendo presente, a tal proposito, che il capoverso dell’art. 624 c.p. (e analogamente l’art. 814 c.c.) dispone che «agli effetti della legge penale si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico».
Appare evidente quindi che le energie possono essere equiparate alle cose, e che perché siano considerate dalla legge come cose – siano cioè ad esse equiparate – non devono avere i requisiti di queste, quali la isolabilità materiale o la trasferibilità individua ad esempio, ma è sufficiente che abbiano un valore economico. Il valore economico, che è presunto nella energia elettrica, per le altre energie deve essere dimostrato; nel caso in esame non par dubbio che le radioonde, che sono energia prodotta, hanno un valore economico perché su di esse si fondano le prestazioni delle aziende televisive. Esse pertanto sono cose agli effetti della legge penale.
L’equiparazione fatta dalla legge delle energie alle cose mobili dà di per sé ragione del perché per le energie non siano configurabili tutti quei reati che abbiano come oggetto le cose mobili (in senso proprio); ad esempio non è configurabile il furto di radioonde, ma possono essere ipotizzabili altri reati, e ciò avviene nella specie per il danneggiamento. Infatti, l’interferenza di altro segnale sulla stessa banda di frequenza rende inservibile il primo segnale, e si integra cosí una delle ipotesi previste dall’art. 635 c.p., appunto il rendere inservibile la cosa altrui.
Acclarata la ipotizzabilità del danneggiamento, deve rilevarsi che nel fatto, allo stato, non sono evidenziabili le scriminanti di cui agli art. 51, 52 c.p. delle quali il ricorrente chiede l’applicazione.
Per percepire il senso delle invocate scriminanti conviene brevemente richiamare la vigente disciplina delle emittenti televisive, o meglio i termini della mancanza di disciplina appropriata per le emittenti televisive private in ambito locale.
E’ noto che la Corte costituzionale con le sentenze n. 225 e n. 226 del 10 luglio 1974 (id., 1974, I, 1945) ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusiva statale dei ripetitori di stazioni estere e dell’esercizio di stazioni locali di televisione via cavo, stabilita dal d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156.
Al vuoto legislativo cosí determinatosi ha sopperito la l. 14 aprile 1975 n. 103 (nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva) e di tale legge la corte, con sentenza n. 202 del 28 luglio 1976 (id., 1976, I, 2060) ha dichiarato l’illegittimità di quelle norme che non consentivano l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione radiofonica e televisiva via etere di portata non eccedente l’ambito locale. Il regime «misto» delle trasmissioni televisive cosí introdotto, con riserva allo Stato di quelle di ambito nazionale, ha avuto conferma dalla corte con sentenza n. 148 del 21 luglio 1981 (id., 1981, I, 2094) che poi, con sentenza n. 237 del 30 luglio 1984 (id., 1984, I, 2049), ha rilevato, tra l’altro, che la trasmissione via etere su scala locale è assolutamente libera nel senso che si svolge in regime di totale carenza legislativa.
Successivamente, con la sentenza n. 231 del 17 ottobre 1985 (id., 1985, I, 2829) la corte ha dichiarato l’illegittimità di quelle disposizioni della l. 103/75 – emanata a seguito delle sent. n. 225 e n. 226 della corte – che imponevano ai ripetitori di programmi emessi da stazioni televisive estere di «oscurare» i messaggi pubblicitari, e infine, con la sentenza n. 35 del 5 febbraio 1986 (id., 1986, I, 605) ha dichiarato legittima altra disposizione della stessa legge relativa a modalità per ottenere l’autorizzazione provvisoria per i titolari di impianti ripetitori (sia di programmi esteri, che di programmi nazionali) già installati al momento di entrata in vigore della legge.
Nel frattempo era stato emanato il d.l. 6 dicembre 1984 n.807, convertito in l. 4 febbraio 1985 n. 10 (disposizioni urgenti in materia di trasmissioni radiotelevisive) che, nel ribadire che è riservata allo Stato la diffusione sonora e televisiva sull’intero territorio nazionale e nel rinviare l’assetto della materia ad una futura legge generale sul sistema radiotelevisivo, sino alla approvazione di tale legge e comunque non oltre sei mesi dall’entrata in vigore del decreto (termine poi prorogato), si è limitata a consentire la prosecuzione dell’attività delle singole emittenti radiotelevisive private con gli impianti di radiodiffusione già in funzione alla data del 1° ottobre 1984. In tale situazione normativa la giurisprudenza civile di questa corte (sez. un. 3 dicembre 1984, n. 6341, id., Rep. 1985, voce Radio televisione, n. 68; 3 dicembre 1984, n. 6339, ibid., n. 69; sez. I, 2 aprile 1987, n. 3179, id., 1987, I, 1734; 20 febbraio 1986, n. 1037, id., 1986, I, 1307) ha affermato che nelle controversie tra privati senza autorizzazione che impegnino lo stesso canale per trasmissioni televisive via etere in ambito locale il conflitto si risolve secondo il criterio della priorità dell’uso di fatto del canale, salva la diversa ipotesi della ripetizione di programmi televisivi stranieri nella quale la presenza dell’autorizzazione costituisce, a differenza di quanto si verifica nelle trasmissioni nazionali, presupposto di liceità dell’esercizio televisivo, con la conseguenza che una attività illecitamente compiuta non è qualificabile come preuso suscettibile di tutela giuridica.
Orbene, proprio su ciò il ricorrente fonda le invocate scriminanti, affermando che gli impianti interferiti sono ripetitori non autorizzati di programmi esteri sicché è legittima l’occupazione delle relative frequenze.
Invero, l’art. 38 l. 103/75 subordina ad autorizzazione del ministero delle poste e telecomunicazioni (e il 2° comma dell’art. 195 d.p.r. 156/73 nel testo sostituito dall’art. 45 l. 103/75 prevede la sanzione in caso di mancanza) «l’installazione e l’esercizio di impianti ripetitori destinati esclusivamente alla ricezione ed alla contemporanea ed integrale diffusione via etere nel territorio nazionale dei normali programmi sonori e televisivi, irradiati dagli organismi esteri esercenti i servizi pubblici di radiodiffusione nei rispettivi paesi … che non risultino costituiti allo scopo di diffondere i programmi nel territorio italiano…».
In proposito alla situazione così delineata, nei termini proposti, questa Suprema corte deve rilevare, richiamati i peculiari connotati del giudizio di riesame già esposti: che le invocate esimenti dell’esercizio di un diritto o della sua difesa legittima non sono immediatamente percepibili nell’azione dannosa volontariamente intrapresa, che è cosa diversa da una controversia sulla priorità dell’uso, della quale peraltro in questa sede – che è di legittimità in procedimento di riesame – se ne conosce un solo segmento (il decreto di sequestro del pretore afferma che le emittenti televisive Telecit e Tvr Voxon hanno «ripreso» ad interferire nelle trasmissioni in ambito locale delle emittenti «Canale 7» e «Canale 21»), e che, inoltre, non risulta evidente il presupposto sul quale il ricorrente fonda le esimenti, cioè la illegittimità degli impianti interferiti di «Canale 7» e di «Canale 21» in quanto ripetitori abusivi.
Invero, dalla motivazione del provvedimento impugnato, sul punto non contraddetto dal ricorrente, sembra che, almeno allo stato, detti impianti trasmettono «in differita» anche programmi di Telemontecarlo, sicché appaiono essere dei trasmettitori e non dei ripetitori. E’ evidente però che il punto richiede un approfondito esame dei dati di fatto, inquadrati negli estremi richiesti dalla fattispecie di cui all’art. 38 l. 103/75, e poi, se del caso, anche in relazione alla successiva normativa, che può essere compiuto solo dal giudice del procedimento principale.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.