23 NOVEMBRE 1999
SENTENZA N° 12993 DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
(Omissis). – 1. Il ricorso si compone di tre motivi.
Il primo dei quali è relativo al solo profilo della tutela esigibile in relazione al «fonogramma»; il secondo è volto a contestare la qualificabilità del filmato in questione come «messaggio pubblicitario», ed il terzo attiene, infine alla «rivalutazione», fino alla data della pronuncia, riconosciuta dalla Corte di appello in ordine alle somme liquidate dal primo giudice alle resistenti.
2. In particolare con la prima censura, rivolta nei confronti della sola EMI Italiana s.p.a., la ricorrente sostiene che abbiano errato i giudici del merito nel riconoscere anche a detta società un credito risarcitorio per violazione di un preteso diritto (reale) di utilizzazione del fonogramma, laddove la diffusione, radiofonica o televisiva, del fonogramma attribuirebbe, al suo produttore, la «sola titolarità di un credito» e cioè (ex art. 73 l.d.a.) il mero diritto ad un compenso (liquidabile ai sensi dell’art. 23 del Regolamento): compenso che la EMI «non aveva mai chiesto né avrebbe potuto chiedere stante la sua notoria adesione al convenzionamento con l’A.F.I.».
Ma la complessa doglianza così articolata è destituita di fondamento sia in punto di fatto che di diritto.
Per il primo profilo ciò che la EMI Italiana nel suo atto introduttivo aveva lamentato (e che non era stato ex adverso contestato) era, infatti, non già un mero atto di diffusione del fonogramma da essa prodotto bensì (come riportato in narrativa dello stesso odierno ricorso della R.T.I.) la utilizzazione non autorizzata di quel fonogramma per la «sincronizzazione» del filmato in contestazione; si era doluta, cioè, della indebita riproduzione del fonogramma che l’emittente televisiva aveva operato per la registrazione del filmato (poi più volte mandato in onda) in cui quel supporto fonografico era stato appunto abbinato alle immagini televisive.
Il che – in punto di diritto – correttamente è stato qualificato dalla Corte di merito in termini di illecito risarcitorio risolvendosi il comportamento, su riferito, della Rete televisiva in una violazione del diritto esclusivo, che l’art. 72 l. di a. innegabilmente riconosce al produttore fonografico, «di riprodurre con qualsiasi processo di duplicazione detto disco o apparecchio di sua produzione e di distribuirlo»; e non quindi nel mero inadempimento, in tesi, di una obbligazione di corrispettivo per la diffusione del fonogramma.
3. Con il secondo complesso motivo della impugnazione – in tema, come detto, di qualificazione del filmato in discussione vengono poi sostanzialmente reiterati i rilievi già svolti dalla ricorrente in sede di appello e che si assumono a torto disattesi dalla Corte milanese.
Si ribadisce così che quel filmato non presentava i connotati oggettivi, funzionali e strutturali della pubblicità – né palese né occulta – consistendo invece in una sequenza antologica di frammenti già andati in onda in varie trasmissioni, intesa a recuperare alla memoria dei telespettatori, per accenni suggestivi, gli spettacoli di maggior rilievo del passato».
Avrebbero pertanto errato i giudici a quibus facendo leva per altro su elementi di cui non vi sarebbe traccia nel verbale di «visione» nell’«estrapolare una parte pubblicitaria» da quella complessivamente antologica del filmato stesso.
Per di più, la connotazione pubblicitaria, sarebbe stata affermata sulla base di considerazioni equivoche e soprattutto in contrasto con il dato normativo definitorio della pubblicità.
In particolare, il d. lgs. 25 gennaio 1992 n. 74, in tema di pubblicità ingannevole – individuando l’operatore del messaggio pubblicitario nel «committente» – richiederebbe la «necessaria terzietà del committente ai fini della qualificazione di un messaggio come pubblicitario», già per tal profilo escludendo che possa esservi pubblicità quando la comunicazione provenga come nella specie, dalla stessa impresa radiotelevisiva.
Del resto, già la direttiva CEE n. 552 del 1989 (art. 1, 18) avrebbe escluso che «l’autopromozione di rete» possa qualificarsi come pubblicità. E ciò in linea con gli statuti costituzionali della libertà di espressione, dai quali si evince la distinzione (obliterata invece della Corte milanese) tra (libere) espressioni atte a comunicare (come quelle di «rievocazioni e di preannunzio» correlate alla «natura diacronica del flusso televisivo» ed alla connaturale «autoreferenzialità della televisione») e manifestazioni atte a provocare il comportamento come propriamente sono quelle pubblicitarie.
3-bis. Nessuno di tali rilievi è idoneo comunque a scalfire, anche in parte qua, l’esattezza della pronunzia impugnata.
La Corte di merito ha invero presupposto (con puntuale individuazione dei referenti normativi: art. 73 l. n. 633 del 1941; 1 lett. c) direttiva CEE n. 552 del 1989; 8 l. n. 223 del 1990; 6 d.m. 581 del 1993) una corretta nozione della «pubblicità commerciale», sulla base dei connotati essenziali dell’oggetto (comunicazione sociale) e dello scopo (di un incremento dei profitti attraverso la sollecitazione della domanda e dei consumi) in relazione ad un determinato prodotto o servizio dell’industria o del commercio.
Del pari correttamente ha poi, nel concreto, rilevato il contenuto e le caratteristiche del filmato in questione, utilizzando (ad integrazione delle sommarie indicazioni contenute nel verbale di «visione») la più analitica descrizione dello stesso in comparsa conclusionale della EMI «non contestata sul punto dalla controparte»; e sottolineando, in tal contesto, l’oggettiva sinergia del messaggio iniziale «torna a casa in tutta fretta c’è un amico che ti aspetta» con gli «spezzoni» dei programmi, fino al momento dello «stacco» e della successiva apparizione dei marchi delle tre reti Italia 1, Canale 5 e Retequattro.
E sulla base di queste premesse coerentemente la stessa Corte ha quindi concluso – con apprezzamento di fatto, per un profilo non ulteriormente sindacabile in sede di legittimità che il filmato in esame era «oggettivamente pubblicitario», per i suoi riferiti contenuti complessivi (oltreché per le modalità di trasmissione, reiterata, proprie di un qualunque «spot») ed aveva, altresì, innegabili «finalità lucrative»; mirando esso, all’evidenza, ad «acquisire nuovi spettatori ed anche nuovi inserzionisti prospettando ai primi l’elevata qualità delle trasmissioni ed ai secondi la presumibile altezza della audience».
3-ter. A superare queste conclusioni, infirmandone le premesse giuridiche, non rileva, per altro, neppure la considerazione, che la ricorrente pretende desumere dalla direttiva CEE n. 552 del 1989 e dalla normativa di recepimento, in ordine alla asserita necessità di un rapporto di committenza tra soggetto «pubblicizzato» e soggetto che provvede a trasmettere il «messaggio pubblicitario».
Questa intersoggettività, dei protagonisti del fenomeno pubblicitario, è invero postulata dalla citata direttiva (come ben evidenziato nei punti 9, 10 e 27 del «considerando») con specifico ed esclusivo riferimento alle finalità di disciplina della concentrazione di spazi pubblicitari e dell’affollamento pubblicitario di «spot» televisivi che possono essere diffusi nell’arco di un determinato numero di ore di trasmissioni; ma non costituisce (come si pretende) un connotato essenziale della «pubblicità commerciale». Ad ogni altro effetto o fine della quale non è invece, esclusa, la possibilità che il proprietario dell’emittente televisiva possa essere contemporaneamente il medium attraverso il quale il messaggio viene diffuso ed il «committente» dello stesso spot: come appunto nella specie è avvenuto.
3-quater. Né maggior spessore ha, infine, il richiamo alla garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (sub art. 21 cost.), con la quale si assume confliggere, la decisione impugnata.
La «pubblicità commerciale» (come la stessa ricorrente finisce del resto con il riconoscere) si pone infatti fuori dell’area di protezione della garanzia su invocata, in quanto, pur estrinsecandosi anche attraverso elementi informativi, è ontologicamente comunque caratterizzata dallo scopo ultimo (non di trasmettere il pensiero bensì) di promuovere comportamenti e scelte di modelli imitativi sul piano dell’attività quotidiana.
E, per tal profilo, con specifico riferimento ai contenuti ed alle caratteristiche del filmato c.d. «antologico» per cui è lite, i giudici d’appello hanno coerentemente argomentato che «il fare leva sui ricordi» (finalità precipua del messaggio della R.T.I., secondo la sua stessa prospettazione) «può ben costituire» – come nel caso concreto – «un modo particolarmente suadente per insinuarsi nella psiche dello spettatore, al fine di invogliarlo a determinati comportamenti futuri ed a precise scelte di mercato». (Omissis)