20 MARZO 1997
SENTENZA N° 2665/97 DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI
sul ricorso proposto da:
CANTIERE SAN VITO, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, Via Flaminia 195, presso lo studio dell’avvocato Laura Comandini, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FAIOLA DI PONCIO G.Battista, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
TEDOLDI PAOLO, elettivamente domiciliato in Roma, presso la CANCELLERIA CIVILE della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE MORENI, giusta delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1693/92 del Tribunale di BRESCIA, emessa il 09/12/92, depositata il 09/12/92;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/97 dal Relatore Consigliere Dott. Federico ROSELLI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Fabrizio AMIRANTE che ha concluso per l’accoglimento del I° motivo e l’assorbimento del resto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 16 novembre 1989 al Pretore di Verolanuova, Paolo Teodoldi esponeva di aver lavorato, fino al 23 aprile 1985, alle dipendenze dell’impresa di Silvio Carini denominata “Cantiere di San Vito” e che sul libretto di lavoro era scritto “con retribuzione sindacale” ma senza alcuna specificazione del contratto collettivo applicabile. Il datore di lavoro, assumendo di essere imprenditore artigiano, rilevando di produrre manufatti in cemento e considerando l’assenza di un contratto collettivo del settore, aveva deciso di applicare per analogia quello stipulato per le imprese artigiane del settore “ceramica-gres-terracotta”. Il ricorrente sosteneva doversi invece applicare il contratto relativo alle industrie produttrici di manufatti in cemento, tale essendo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore, e perciò chiedeva che il Carini fosse condannato a pagargli la differenza di retribuzione come da conteggio allegato.
Costituitosi il convenuto, il Pretore interpretava la volontà negoziale delle parti e così riteneva che esse avessero implicitamente e fin dalla costituzione del rapporto di lavoro richiamato il contratto per le industrie produttrici di manufatti in cemento; accoglieva perciò la domanda con decisione dell’11 maggio 1990.
Questa veniva confermata con sentenza 9 dicembre 1992 dal Tribunale di Brescia, il quale tuttavia correggeva la motivazione del primo giudice, osservando che le parti non avevano chiaramente espresso la loro intenzione in sede di conclusione del contratto individuale di lavoro; tuttavia dal loro comportamento successivo alla conclusione sembrava che esse avessero voluto applicare il contratto collettivo per il settore artigiano gres-ceramica-terracotta. La volontà così manifestata era però da ritenere nulla ai sensi dell’art. 2070 cod. civ., che imponeva l’applicazione del contratto collettivo non già voluto dalle parti bensì oggettivamente corrispondente all’attività svolta dell’imprenditore; e poichè questo poteva considerarsi un piccolo industriale del cemento, fondata era la pretesa dell’attore.
Il Tribunale rigettava poi la richiesta, formulata dall’appellante, di consulenza tecnica diretta a calcolare l’ammontare delle spettanze del lavoratore: questi aveva infatti allegato propri conteggi al ricorso in primo grado, senza che il convenuto avesse mosso alcuna tempestiva contestazione ai sensi dell’art. 416, terzo comma, cod. proc. civ.. In conclusione il collegio d’appello confermava il dispositivo emesso dal Pretore.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione il Carini. Resiste con controricorso il Teodoldi. Il ricorrente ha presentato memoria.
Nell’udienza del 31 maggio 1996 la Sezione lavoro, rilevato il contrasto di giurisprudenza di cui si dirà nella parte motiva, trasmetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione a queste Sezioni unite ai sensi dell’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ.. Il Primo Presidente decideva in tal senso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2070 cod. civ. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Egli sostiene che nella sentenza impugnata il Tribunale “artificiosamente” sostituì la volontà negoziale delle parti, le quali nel contratto individuale di lavoro avevano, sia pure implicitamente, richiamato il contratto collettivo per le imprese artigianali del gres, ceramica e terracotta, con una asserita volontà della legge, vale a dire con una diretta applicazione del contratto collettivo per le piccole imprese cementiere, imposta, ex art. 2070 cit., dall’”attività effettivamente esercitata dall’imprenditore”.
Secondo il ricorrente l’art. 2070 cit. non potrebbe essere interpretato nel senso di determinare l’applicazione di un contratto collettivo non efficace erga omnes sulla base oggettiva dell’attività d’impresa e contro la volontà delle stesse parti del rapporto di lavoro subordinato.
Egli aggiunge che la volontà delle parti poteva anche essere nella specie desunta dalla pregressa, costante applicazione, ai rapporti eguali a quello ora controverso, del contratto collettivo per le imprese artigianali, in pieno accordo con le maggiori organizzazioni sindacali.
I giudici d’appello, del resto, avrebbero insufficientemente e contraddittoriamente motivato in ordine all’accertamento dell’attività da lui effettivamente svolta, che era artigianale e non industriale.
Il motivo è fondato.
L’art. 2069 cod. civ. stabilisce: “Il contratto collettivo deve contenere l’indicazione della categoria di imprenditori e prestatori di lavoro, ovvero delle imprese o della impresa, a cui si riferisce, e del territorio ove ha efficacia” (primo comma). “In mancanza di tali indicazioni il contratto collettivo è obbligatorio per tutti gli imprenditori e i prestatori di lavoro rappresentati dalle associazioni stipulanti” (secondo comma).
Il successivo art. 2070, primo comma, dispone:
“L’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore”.
L’interpretazione di queste disposizioni è possibile soltanto nell’ambito del sistema normativo in cui esse si inseriscono e quale si è storicamente formato.
La legge 3 aprile 1926 n. 563, “sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro”, stabiliva che le associazioni sindacali legalmente riconosciute dei datori di lavoro e dei lavoratori avessero la personalità giuridica e la rappresentanza legale di tutti i soggetti per cui erano state costituite, “vi siano o non vi siano iscritti”, nell’ambito della circoscrizione territoriale dove operavano (art. 5). I contratti collettivi da esse stipulati avevano effetto verso tutti i soggetti rappresentati (art. 10, primo comma).
Si parlava così di efficacia erga omnes di detti contratti, ossia anche verso i soggetti, datori o prestatori di lavoro, che non si fossero volontariamente iscritti alle associazioni di categoria. Trattavasi di fonti eteronome del diritto oggettivo, vale a dire efficaci anche erga non volentes, a differenza dei negozi giuridici di cui agli artt. 1098, cod. civ. del 1865, 1321 e 1324 cod. civ. 1942, cosi che essi vennero inseriti tra le fonti del diritto dall’art. 1, n. 3, delle disposizioni preliminari al codice civile del 1942 e la loro violazione o falsa applicazione potè essere denunciata in cassazione ex art. 454 cod. proc. civ.. La legge del 1926 portava in tal modo un mutamento di rilevanza costituzionale nel sistema delle fonti del diritto poichè -come si è di recente osservato in sede storiografica- attribuiva il potere di dettare norme inderogabili e vincolanti erga omnes a soggetti che, per quanto legalmente riconosciuti dallo Stato ed anzi da questo cooptati, conservavano una distinta personalità giuridica.
Da questo mutamento derivava un completo superamento della volontà negoziale dei singoli e, per quanto qui specificamente interessa, discendeva che, a norma dell’art. 2070, primo comma, sopra riportato, l’attività economica esercitata dall’imprenditore determinava l’applicazione del contratto collettivo proprio della relativa categoria professionale, senza che – ripetersi – rilevasse la volontà del medesimo o del prestatore di lavoro.
Soppresso l’ordinamento corporativo dal decreto legge 5 agosto 1943 n. 721 e dal decreto luogotenenziale 23 novembre 1944 n. 369, l’art. 39 della Costituzione repubblicana stabilì nel primo comma la libertà di
organizzazione sindacale, nel secondo comma l’eventuale imposizione dell’obbligo di registrazione dei sindacati ad opera della legge ordinaria e nel terzo comma la legittimazione dei medesimi, se registrati, di stipulare contratti collettivi “con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Le previsioni del secondo e del terzo comma sono rimaste però inattuate.
La libertà di associazione al sindacato, espressione del più generale principio di associazione, sancito nell’art. 18 Cost., è stabilita anche nell’art. 2 della convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro stipulata a San Francisco il 17 giugno 1948, n. 87, e ratificata dall’Italia con legge 23 marzo 1958 n. 367.
Conseguenza di tutto ciò è che dopo la soppressione dell’ordinamento corporativo i contratti collettivi sono sottoposti alle regole civilistiche dell’autonomia privata, ossia che possono avere efficacia soltanto in volentes, ossia, ancora, che la loro efficacia, non estesa alla generalità, è limitata a quanti, con l’iscrizione alle associazioni sindacali, hanno a queste conferito la rappresentanza dei propri interessi nella stipulazione dei contratti collettivi; questi stabiliscono così il trattamento a cui debbono adeguarsi i singoli contratti individuali di lavoro.
Negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, la legge 14 luglio 1959 n. 741 previde decreti legislativi delegati che rendessero efficaci erga omnes alcuni contratti collettivi, i quali risultarono così applicabili alle intere e rispettive categorie professionali, individuate secondo l’attività economica esercitata dalle imprese, a norma dell’art. 2070 cit.. In tal senso si espresse la Corte costituzionale con sentenza 26 giugno 1969 n. 105.
La dottrina assolutamente prevalente ritenne che l’art. 2070 potesse ormai valere unicamente per i contratti collettivi, ora detti, ancora dotati di efficacia generale, mentre per quelli detti “di diritto comune”, ossia validi solo in volentes, esso avrebbe perduto quasi tutta la sua operatività: liberi erano infatti i soggetti privati, datori o prestatori di lavoro, di associarsi sindacalmente e quindi, attraverso l’iscrizione ad un’associazione di loro scelta, di determinare il contratto collettivo destinato ad incidere sul rapporto individuale di lavoro. L’attività economica esercitata dall’impresa più non rilevava, costituendo un mero dato obiettivo destinato a valere soltanto in mancanza di volontà delle parti.
Gran parte della giurisprudenza, che verrà citata tra breve, non condivide però questa tesi dottrinale e ritiene che, anche in regime di libertà sindacale, ossia di libertà delle adesioni associative, e di conseguente autonomia di determinazione del contenuto del rapporto individuale di lavoro, l’art. 2070 continui ad operare pienamente, con la conseguenza che il regolamento del rapporto è sempre determinato oggettivamente dall’attività economica esercitata dall’imprenditore.
La questione che il ricorrente sottopone ora alla Corte consiste perciò nello stabilire se l’applicabilità ad un rapporto individuale di lavoro di un certo contratto collettivo debba dipendere dall’oggetto dell’attività economica ora detta, oppure se la configurazione dell’oggetto di detto rapporto sia rimessa all’autonomia negoziale delle parti, esercitata attraverso il richiamo (anche implicito, attraverso l’adesione ad un sindacato) ad un contratto collettivo di loro scelta.
Come s’è detto, una parte della giurisprudenza, anche di questa Corte, si esprime nel primo senso, ritenendo che pur nell’ordinamento postcorporativo l’art. 2070 cit. corrisponda a finalità pubblicistiche, con la conseguenza che le parti non potrebbero sottoporre il rapporto alla disciplina di un contratto collettivo diverso da quello applicabile ai sensi della medesima norma, a meno che dalla convenzione da loro stipulata derivi l’applicazione di regole collettive più favorevoli per il prestatore di lavoro (ex multis: Cass. 21 luglio 1984 n. 3877, 23 novembre 1984 n. 6063, 10 novembre 1987 n. 8289, l° giugno 1988 n. 3712, 8 luglio 1988 n. 4528, 7 novembre 1991 n. 11867, 6 novembre 1995 n. 11554) . Questo orientamento giurisprudenziale assume una nozione di categoria professionale, corrispondente all’attività economica “effettivamente esercitata” dall’imprenditore, come elemento preesistente e prevalente rispetto alle scelte dell’autonomia privata: si parla così in dottrina di “categoria merceologica” che andrebbe anteposta alla “categoria contrattuale”.
Ma v’è anche un orientamento giurisprudenziale opposto, vale a dire conforme alla sopra illustrata tesi della dottrina, secondo cui il contratto collettivo postcorporativo è applicabile esclusivamente ai datori di lavoro iscritti all’associazione sindacale stipulante o, in difetto di iscrizione, a quelli che abbiano esplicitamente aderito al contratto stesso, ovvero che lo abbiano implicitamente accettato. In altre parole, nell’ordinamento attuale le categorie professionali hanno rilevanza giuridica non in base a classificazioni autoritative, bensì in base alla spontanea organizzazione sindacale ed alle scelte dell’autonomia privata (ex multis: Cass. 22 gennaio 1992 n. 695, 30 gennaio 1992 n. 976, 26 gennaio 1993 n. 928, 9 giugno 1993 n. 6412) .
Alla stregua di questo orientamento il primo comma dell’art. 2070 conserva una sua residua operatività, oltrechè per i contratti collettivi di cui alla legge n. 741 del 1959 sopra richiamata e per quelli a cui atti aventi forza di legge operino un rinvio ricettizio, anche per le ipotesi in cui l’imprenditore svolga diverse attività economiche, sia iscritto alle rispettive associazioni sindacali ed occorra individuare il contratto collettivo applicabile al personale addetto alle singole attività (Cass. n. 976 del 1992 cit.). L’articolo non sarebbe stato perciò tacitamente abrogato dalla normativa postcorporativa.
Ritengono le Sezioni unite che questo secondo orientamento esprima l’interpretazione esatta dell’art. 2070 cod. civ., in quanto meglio inquadrabile nel sistema attuale del diritto del lavoro, ossia più coerente con le altre norme e con i principi costituzionali.
Ed infatti dal principio della libertà sindacale, tutelato non soltanto dal richiamato art. 39 Cost. ma anche dal precedente art. 2 poichè il sindacato rientra fra le “formazioni sociali” ivi previste, deriva l’impossibilità di applicare un contratto collettivo di diritto privato, vale a dire non imposto erga omnes, a persone che non vi abbiano direttamente o indirettamente aderito e che vi sarebbero assoggettate in base a definizioni o delimitazioni autoritative delle categorie professionali. Nessuna norma impone oggi la categoria professionale quale strumento coattivo di organizzazione dei datori e dei prestatori di lavoro.
La tesi, qui disattesa, secondo cui attraverso l’art. 2070 cit. il contratto collettivo può esplicare efficacia verso soggetti non contraenti o non aderenti, così ponendosi al di fuori della regola generale di inefficacia dell’atto di autonomia privata verso i terzi (art. 1372, secondo comma, cod. civ.), produce anche una frattura sistematica nell’ordinamento lavoristico, quale si è formato anche attraverso la giurisprudenza di questa Corte.
Infatti numerose massime di decisione, ormai consolidate, riconducono la contrattazione collettiva alle regole civilistiche, tanto da giustificare la definizione dei contratti in questione come negozi giuridici “di diritto comune”. Basti pensare alla inapplicabilità, almeno diretta, di alcune delle preleggi, quale l’art. 11, onde si ritiene che la disciplina intertemporale dei contratti collettivi sia affidata alla libera determinazione della parti contraenti, senza alcun vincolo di irretroattività (Cass. 1° aprile 1983 n. 2365); o all’inapplicabilità dell’art. 12, capoverso, per effetto della quale non è consentita l’integrazione analogica che inserisca nel contratto clausole di altri contratti, ciò che contrasterebbe con i limiti di efficacia all’interno della categoria professionale (Cass. 6 dicembre 1985 n. 6158). A ciò deve aggiungersi la pacifica interpretabilità secondo le norme codicistiche di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e segg. cod. civ.) nonchè l’impossibilità di includere i contratti collettivi fra le “norme del diritto” che il giudice deve conoscere ed applicare d’ufficio ex art. 113 cod. proc. civ. e che costituiscono il parametro di legittimità nel giudizio di cassazione ai sensi del successivo art. 360 n. 3.
Indici ai quali non è validamente opponibile, per giustificarne l’efficacia ultra partes sulla base della categoria professionale, una natura pubblicistica dell’art. 2070 cod. civ., asserita senza alcuna base normativa.
Certamente, dai vigenti principi di libertà contrattuale e di associazione sindacale può derivare, come ha avvertito una recentissima dottrina, l’eventualità e che al rapporto individuale di lavoro si applichi un contratto del tutto innaturale rispetto alle oggettive caratteristiche dell’impresa. Ma a quest’obiezione suole replicarsi validamente che tale eventualità non comporta la lesione di diritti fondamentali del lavoratore poichè l’applicazione del contratto collettivo voluto dalle parti non priva completamente di rilievo il contratto di categoria (non voluto e perciò di per sé inapplicabile), quante volte il primo preveda una retribuzione non proporzionata alla quantità e qualità della prestazione lavorativa e perciò in contrasto con l’art. 36, primo comma, Cost. Questa norma permette infatti al giudice di adeguare la retribuzione ai detti parametri, facendo per l’appunto riferimento a quella prevista nel contratto di categoria (Cass. 21 gennaio 1985 n. 237, 1° giugno 1988 n. 3712, n. 928 del 1993 cit.).
Rimane da precisare, quanto al potere giudiziale di sostituzione della clausola prevedente la retribuzione, sulla base dell’art. 36 Cost., che:
a) L’adeguamento della retribuzione può salvaguardare i diritti costituzionalmente rilevanti del lavoratore poichè può comportare anche l’applicazione di clausole del contratto collettivo non riguardanti la retribuzione in senso stretto ma indirettamente necessarie al detto adeguamento (Cass. 21 gennaio 1985 n. 237, 25 giugno 1985 n. 3810, 2 maggio 1990 n. 3617);
b) il riferimento al contratto collettivo di categoria non si risolve in una meccanica trasposizione delle sue clausole alla disciplina del rapporto di lavoro in questione, ma ha solo un valore orientativo e non serve comunque a realizzare un’assoluta parità di trattamento fra lavoratori che svolgono la stessa attività economica (Cass. 20 gennaio 1975 n. 234, 13 febbraio 1990 n. 1042);
c) sul piano processuale, nella domanda con la quale il lavoratore chiede il pagamento di quanto spettantegli sulla base di un contratto collettivo, deve ritenersi implicita, anche se questo si riveli inapplicabile alla fattispecie, la richiesta di adeguamento della retribuzione medesima alla stregua dell’art. 36 Cost. (Cass. 14 dicembre 1982 n. 6885);
d) l’adeguamento comporta un apprezzamento riservato al giudice del merito (Cass. 6 marzo 1985 n. 1934, 26 maggio 1986 n. 3544, 27 gennaio 1989 n. 513, 12 febbraio 1990 n. 997).
Nella sentenza qui impugnata il Tribunale non ha seguito questi principi poichè, come s’è detto sopra, ha applicato alla fattispecie un contratto collettivo che esso stesso ha escluso essere stato richiamato dalla concorde volontà delle parti; e questa falsa applicazione dell’art. 2070 cit. comporta la cassazione della sentenza stessa.
Il contratto effettivamente voluto dalle parti è stato identificato attraverso una delibazione soltanto sommaria dal Tribunale, il quale ha ritenuto di doversi occupare prevalentemente di quello applicabile in concreto, ossia di quello corrispondente all’attività economica d’impresa. Da ciò la necessità di rinviare il giudizio ad altro Collegio d’appello, che si designa nel Tribunale di Mantova e che individuerà il regolamento contrattuale da applicare nella fattispecie concreta uniformandosi al seguente principio di diritto:
“Il primo comma dell’art. 2070 cod. civ. (secondo cui l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune, che ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiano prestato adesione. Pertanto, nell’ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dell’imprenditore, il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente fare riferimento a tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato”.
Il secondo motivo di ricorso, concernente la determinazione quantitativa del credito del lavoratore, rimane così assorbito.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese di questa fase processuale.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e cassa con rinvio al Tribunale di Mantova, anche per le spese.