1 settembre 1997 Sentenza n. 8313/97 della Corte Suprema di Cassazione – Sezione I Civile

1 SETTEMBRE 1997

SENTENZA N. 8313/97 DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZIONE I CIVILE

 

Sul ricorso proposto da:

SIT TELESERVICE 1975 Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via del Viminale 43, presso l’avvocato FABIO LORENZONI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO BERTOLI, giusta procura a margine del ricorso;

ricorrente

contro

GARANTE per la RADIODIFFUSIONE e l’EDITORIA, domiciliato in ROMA, Via dei Portoghesi 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

controricorrente

avverso la sentenza n. 275/95 della Pretura di BRESCIA, depositata il 03/04/95;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/04/97 dal Relatore Consigliere Dott. Luigi MACIOCE;

udito per il ricorrente, l’Avvocato Lorenzoni, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente, l’Avvocato Polizzi, che ne ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo MACCARONE che ha concluso per il rigetto del l° e 2° motivo, inammissibilità del 3° motivo del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Alla soc. SIT-Teleservice 1975 s.r.l., esercente l’emittente televisiva TELEMARKET, in data 31.1.94 venne contestata la violazione dell’art. 8 comma 9bis della L. 223\90 (introdotto dall’art. 3 del D.L. 408\92 conv. in L. 483\92), per aver trasmesso dalla emittente in data 28.11.93 offerte di vendita al pubblico per circa 15 ore e cioè per tempo superiore al limite prescritto dalla richiamata normativa (al proposito attuativa della Dir.CEE n.89\552).

All’esito dell’acquisizione delle difese orali e scritte della società (che sosteneva non essere astretta, in quanto esercente emissioni esclusive di televendite), il Garante per l’editoria e la radiodiffusione emise a carico della stessa, ai sensi degli artt. 8 comma 9bis e 31 commi 1 e 3 L. 223\90, ordinanza ingiunzione comminante la sanzione amministrativa di lire 20 milioni.

Con ricorso 3.1.95 la SIT Teleservice 1975 propose opposizione innanzi al Pretore di Brescia sostenendo che le emissioni “monotematiche” di televendite non sarebbero state sottoponibili ai limiti ed alle condizioni dei messaggi pubblicitari posti dalla Dir. CEE 89\552 e recepiti dalla legge “Mammì”, tale essendo l’interpretazione della norma comunitaria e di quella nazionale (invocandosi, per la acquisizione della prima, la remissione alla Corte di Giustizia ex art. 177 del Trattato, e, per la seconda, ove formulata nel senso preteso dall’Amministrazione), la remissione alla Corte Costituzionale in relazione alla violazione dell’art. 41 Cost.).

Il Pretore di Brescia, costituitosi il Garante opposto, con sentenza 3.4.95 respinse l’opposizione affermando:

che la tesi dell’opponente (sulla esenzione delle emittenti di televendite dai vincoli di cui alla dir. Cee 89\552 e della legge nazionale, per ricadere esse nella applicazione della dir. Cee 85\577 sotto la garanzia dell’art. 41 Cost.) era priva di fondamento normativo;

che infatti la scarsità delle frequenze (dalla quale nasceva il regime obbligatorio delle concessioni) imponeva l’adozione di vincoli e limiti anche per le emittenti commerciali, tali vincoli avendo il legislatore imposto in attuazione della normativa comunitaria e del precetto costituzionale.

Per la cassazione di tale sentenza, not. il 24.4.95, ha proposto ricorso la soc. SIT-Teleservice con atto notificato il 22.6.95 e contenente tre motivi. Si è ritualmente costituito il Garante, con la rappresentanza dell’Avvocatura Generale dello Stato, notificando controricorso in data 23.8.95.

I difensori delle parti alla fissata udienza del 15.4.95 hanno discusso oralmente la causa e richiamato le loro richieste. Il P.G., all’esito della requisitoria, ha concluso per la reiezione dei primi due motivi e per l’inammissibilità del terzo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La soc. Sit Teleservice 1975 a r.l. – emittente televisiva nazionale utilizzante il marchio “Telemarket-Elefante TV” – si duole in questa sede di legittimità del fatto che il Pretore di Brescia, dalla stessa adìto in sede di opposizione ad ordinanza ingiunzione, emessa dal Garante per la radiodiffusione a sanzionare una pretesa inosservanza delle norme di legge, abbia disatteso tanto le sue richieste pregiudiziali quanto, nel merito, la sua articolata ipotesi ricostruttiva, e per l’effetto ripropone, ed amplia, in questa sede impugnatoria, tanto le prime quanto le seconde.

In sintesi, e salva la successiva puntuale illustrazione dei motivi, la ricorrente, che premette di essere impresa esercente in via esclusiva (quanto ad oggetto ed a tempo) la trasmissione di programmi televisivi di “televendita” e che, pertanto, nega di avere alcuna finalità editoriale, sull’assunto che sia illegittima la pretesa del Garante di veder applicati a tal genere di emittente i limiti di affollamento orario della “pubblicità” statuiti per le emittenti televisive a carattere editoriale (stante la assenza di previsione al proposito nella vigente Direttiva CEE e la illegittimità costituzionale delle disposizioni della legge nazionale, che attuarono tal direttiva):

1) in via pregiudiziale richiede a questa Corte di proporre alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee idonei quesiti volti ad acclarare se, come la stessa ricorrente assume, la direttiva in questione ignori del tutto la stessa esistenza di imprese esercenti la “sola” televendita, conseguentemente riservando alle sole emittenti “editoriali” le rigide limitazioni orarie sancite;

2) sempre in via pregiudiziale, denunzia l’illegittimità costituzionale, con riguardo ai parametri di cui agli artt. 3 e 41 Cost., della legislazione nazionale statuente indiscriminatamente (e quindi anche per le imprese quale quella dalla deducente gestita) limiti orari delle trasmissioni pubblicitarie ed oneri specifici ragionevolmente attagliantisi solo alle imprese editoriali con finalità commerciale;

3) sostiene – pertanto – e come, a suo avviso, non potrà non emergere all’esito dei sollecitati incidenti, l’inesistenza e/o l’invalidità dei precetti sulla cui base venne adottata la contestata sanzione amministrativa dal Garante e su tali premesse articola tre ragioni di doglianza nei riguardi della sentenza 3.4.95 del Pretore di Brescia (che disattese le richieste pregiudiziali, convalidando, nel merito, l’opposta sanzione).

Con il Primo motivo, quindi, la soc. SIT denunzia la sentenza pretorile per violazione dell’art. 12 delle preleggi, per avere attribuito alla Direttiva CEE 89/522 ed all’art. 8 comma 9bis della L. 223/90 portata di precetti rivolti anche a regolare le trasmissioni di emittenti programmi di televendite in via esclusiva, là dove tali precetti non potevano includere nella loro sfera applicativa una pura e semplice attività di intermediazione sol svolta tramite il mezzo televisivo e, semmai, sottoponibile alla disciplina della Dir. CEE 85/577 (attuata con il D. Lgs. 15.1.92 n. 50. volto a regolare la materia dei “contratti negoziati fuori dei locali commerciali”).

Con il secondo motivo, poi, la ricorrente SIT censura l’avvenuta applicazione dell’art. 8 della legge 223/90 alla attività di essa emittente, essendo del tutto contraria agli artt. 3 e 41 Cost. una interpretazione che voglia applicare d’imperio i limiti previsti a garanzia del rispetto dei valori tutelati dall’art. 21 Cost. ad un’impresa che in nessun modo può ritenersi produrre informazione, così finendo per pregiudicare – ed in vista della tutela di valori neanche coinvolti dall’attività stessa – il valore fondamentale, e di pari dignità, della libertà di impresa garantita da parimenti degna norma costituzionale.

Con il terzo motivo, infine, la SIT denunzia violazione dell’art. 20 6° comma della L. 223/90 (statuente, per i soggetti titolari di concessione, quali la stessa ricorrente, l’obbligo di trasmissione quotidiana di telegiornali), per avere il Pretore applicato in tal guisa una disposizione né autorizzata dalla Dir.CEE 89/552 né conforme all’art. 21 Cost. (essendo imposto di manifestare il pensiero a chi è semplice intermediatore di contrattazioni), senza neanche aver avvertito l’obbligo di rimettere alle indicate Corti l’una e l’altra questione.

Rileva il Collegio, in via preliminare, e condividendo il rilievo formulato in discussione dall’Avvocatura Erariale, che la doglianza proposta nel terzo motivo sottopone al giudice di legittimità una questione semplicemente estranea alla materia litigiosa, posto che, se il Garante ritenne di irrogare alla SIT la sola sanzione relativa alla violazione dell’art. 8 comma 9bis della L. 223/90 (quale introdotto dall’art. 3 D.L. 19.10.92 n. 408 conv. in L. 17.12.92 n. 483, a regolare, con espansione dei tempi consentiti, i limiti quotidiani di pubblicità televisiva nazionale comprensiva delle “televendite”), il Pretore, in sede di opposizione, non introdusse affatto surrettiziamente tal questione nel “thema decidendi”, – quindi conoscendo di infrazione neanche contestata – ma si limitò a desumere dal menzionato art. 20 della legge argomento a sostegno della sua tesi della necessaria sottoposizione di tutte le emittenti al complesso di limiti ed oneri posti nell’interesse generale. E da tanto consegue, come pur richiesto dal Procuratore Generale, l’inammissibilità del motivo (volto a censurare una statuizione pregiudizievole in realtà affatto inesistente).

Venendo, dunque, all’esame dei due residui motivi di ricorso, esame che la intima connessione delle doglianze e la complessità delle delicate questioni consigliano di condurre unitariamente, ritiene il Collegio doversi formulare (alla stregua di quanto affermato da Corte Cost. con le ordd. 536/95 e 206/76) una sintetica premessa. Quando, come nella specie, innanzi al giudice nazionale vengano in rilievo sia questione di interpretazione di normativa comunitaria (per la quale si ponga problema di rinvio pregiudiziale, facoltativo o d’obbligo, alla disamina della Corte di Giustizia) sia questione di legittimità costituzionale delle norme nazionali che della prima siano diretta applicazione, e quando dalla interpretazione della ridetta normativa comunitaria si faccia discendere elemento condizionante la stessa esistenza del dubbio di costituzionalità (nella specie ritenendosi dalla ricorrente che la normativa interna impositiva di obblighi sia difforme da quella comunitaria che, ben interpretata, risulta omissiva degli stessi ed “in parte qua” con la prima confliggente), il cd. incidente interpretativo comunitario assume carattere necessariamente pregiudiziale rispetto all’incidente di costituzionalità.

E su tali premesse può darsi risposta al dubbio interpretativo pregiudiziale posto dalla ricorrente, sol successivamente potendosi affrontare l’esame del riferito incidente di costituzionalità. Ed a tal risposta è direttamente legittimata, nella specie, questa Corte, ricorrendo ipotesi di esenzione del giudice di ultima istanza dall’obbligo, altrimenti esistente, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 177 3° del Trattato: sussiste infatti, come più volte rammentato da questa Corte di legittimità (cfr. Cass.S.U. 27.7.93 n. 8390 e Cass. 8.6.92 n. 7056) ed affermato dalla stessa Corte di Giustizia (con la prima decisione del 6.10.82 in causa 283/81), una condizione del testo della norma comunitaria tale da imporre, con evidenza di assoluta chiarezza, una sola opzione interpretativa.

In tal senso induce a ritenere la mera lettura delle norme della Direttiva 89/552 richiamate dalla odierna ricorrente.

A) L’art. 1 lett. a) contiene l’espressa definizione della “trasmissione televisiva”, tale intendendosi quella – eseguita attraverso i tre noti mezzi di propagazione – avente ad oggetto “programmi destinati al pubblico”: l’evidente assenza di valorizzazione di alcun contenuto della trasmissione, ai fini della definizione generale, trova, poi, speculare riscontro, nella tassativa enunciazione delle ipotesi escluse (i servizi di comunicazione che forniscono informazioni o messaggi su richiesta individuale) tra le quali parrebbe temerario voler annoverare analogicamente la vendita di prodotti vari nella quale l’acquirente, coinvolto per la partecipazione generale al messaggio ricevuto dal suo televisore, “entra” tramite un mezzo diverso ed ulteriore (quale il telefono o la posta).

B) La lett. b) della stessa disposizione generale, di converso, definisce quale “pubblicità” ogni messaggio televisivo trasmesso allo scopo di promuovere la fornitura, dietro compenso, di beni o servizi, subito precisando, al comma 2°, che le offerte dirette al pubblico di prodotti e servizi sono in tal nozione comprese ai soli fini della applicazione dei limiti orari di affollamento di cui all’art. 18: e l’equiparazione ai fini precisati appare di tal eloquenza da non lasciar adito a dubbi sulla scelta comunitaria di ammettere le emittenti (pur se “monotematiche”) all’uso dei mezzi di trasmissione generale solo ove la specificità promozionale del messaggio rispetti i limiti generali imposti ad ogni forma di pubblicità commerciale.

C) L’art. 18 della Direttiva, come dianzi accennato, da un canto fissa il tetto di “pubblicità” quotidiano (c .1) ed orario (c.2), dall’altro pone per le “televendite” il limite ulteriore di un’ora al dì, con una specifica valutazione dell'”impatto” di siffatta promozione sugli “interessi del pubblico” (art. 19) che rende affatto impensabile che quel legislatore comunitario abbia, contestualmente, lasciato impregiudicato e non regolato il diritto degli esercenti solo televendite a trasmettere in assoluta libertà.

Può, pertanto, affermarsi che l’intento della direttiva del 1989, allo stato non fatta segno ad alcuna modifica, sia stato quello di inserire anche le imprese esercenti televendite nell’ambito della regolamentazione generale dei limiti quantitativi della “pubblicità”, quindi negando recisamente la stessa possibilità che i legislatori nazionali (autorizzati a derogare solo “in meljus” alla disciplina: art. 19) consentissero maggiori o addirittura esclusive presenze di siffatte iniziative commerciali diffuse con i mezzi di cui all’art. 1 lett. A). E può, conseguentemente, negarsi rilievo alcuno alla Dir. CEE 85/577 (attuata in Italia con il D.Lgs. 15.1.92 n. 50), regolante le vendite (o le offerte di vendita) effettuate al di fuori dei locali commerciali e nelle forme ben indicate nell’art. 1 (tra le quali, pervero, è ben rinvenibile la vendita per corrispondenza o “porta a porta” ma è sconosciuta quella esercitata tramite il mezzo televisivo). Vi è, dunque, da esaminare lo stato della legislazione italiana attuativa di quella comunitaria e, successivamente, la presenza a suo carico di dubbi di costituzionalità (non essendo certo la legge italiana, pur conforme alla norma comunitaria, immune dalla possibilità di impingere contro i valori fondamentali della Carta Costituzionale).

E la normativa in esame è quella, dichiaratamente attuativa della Dir. CEE 89/552 (art. 39), posta dall’art. 8 comma 9 bis della legge 6.8.90 n. 223 (comma introdotto dal cit. art. 3 D.L. 408/92 conv. in L. 483/92).

La disposizione – che indubitabilmente (come riconosce la stessa ricorrente) disciplina “ex professo” le trasmissioni in questione – da un canto fissa il limite di affollamento pubblicitario al dì al 20% ove detta pubblicità comprenda “…le offerte fatte direttamente al pubblico ai fini della vendita … ” e dall’altro canto ritocca in aumento il netto orario specifico delle televendite portandolo ad un’ora e 12′ dall’ora consentita dall’art. 18 3° della Dir. CEE 89/552. Il successivo comma 9ter, poi, eleva al 35% il tempo massimo di trasmissione quotidiana dedicato alla pubblicità, ove comprendente le ridette televendite, per le sole emittenti televisive in ambito locale (mostrando specifica comprensione per le esigenze dei bacini locali di utenza e per le necessità di finanziamento delle emittenti minori).

Tale disciplina della trasmissione di pubblicità in sede locale venne, ancora, integrata dalla riformulazione dell’art. 9 ter operata dai DD.LL. 208 e 323 del 1993, l’ultimo dei quali convertito con L. 27.10.93 n. 422, in senso sostanzialmente conforme, per quel che qui rileva, a quello di cui al testo originario, nonchè ulteriormente precisata dal regolamento approvato con D.M. 9.12.93 n.581 (che all’art. 12 comma 2 statuì per le “offerte al Pubblico” in sede nazionale il limite “interno” del 5% nell’ambito del 2000 di cui al comma 9bis più volte citato).

Nessuna modifica al riferito quadro, infine, venne disposta con l’ultimo intervento sull’attività radiotelevisiva, contenuto nella L. 23.12.1996 n. 650 (di conversione del D.L. 545/96).

Orbene, dal quadro delle norme applicabili all’epoca della contestata trasmissione (28.11.93) emerge con estrema nettezza, da un canto, la precisa consapevolezza del legislatore della esistenza e consistenza del fenomeno delle “televendite” nell’ambito delle numerose forme di utilizzazione del mezzo televisivo per la “promozione” di prodotti e servizi a fini commerciali e, dall’altro canto, la altrettanto precisa scelta di porre rigorosi limiti tanto alla “promozione” in generale, quanto, in via specifica, alla particolare utilizzazione del mezzo per consentire, a un tempo, promozione e diretta negoziazione dei beni e servizi presentati.

Ma se chiara è la scelta ed inequivoco l’intento del legislatore (di escludere in radice la legittimità delle trasmissioni delle “offerte” al pubblico che non siano rispettose dei rigorosi limiti, generali e specifici, statuiti dalla legge nazionale) ne discende, all’evidenza, che in alcun modo il carattere “monotematico” e non informativo-editoriale dell’impresa gestita dalla soc. SIT può costituire esimente della conclamata violazione dell’art. 3 comma 9bis della citata legge del 1990, sempre che la menzionata normativa, e la chiara scelta politica che la sostiene, siano immuni dal dubbio di costituzionalità posto dalla ricorrente e negato nell’impugnata sentenza del Pretore.

Ma anche ad avviso di questa Corte, sollecitata a sollevare incidente di costituzionalità, le questioni poste sono manifestamente infondate.

A criterio della SIT-Teleservice, l’imposizione dei cennati limiti orari alla trasmissione di offerte al pubblico sarebbe affatto irragionevole e vessatorio per una emittente che non avesse alcuna finalità editoriale, da un canto impingendo contro la garanzia costituzionale dell’impresa (in difetto di alcuna “utilità sociale” a porre limiti la cui razionalità è rinvenibile nella sola esigenza di protezione dell’interesse informativo culturale dell’utenza, nella specie affatto assente), dall’altro canto equiparando irragionevolmente imprese mosse da logiche del tutto peculiari e sostanzialmente sancendo a carico di una categoria di esse una sorta di “imponibile” di informazione e cultura, la cui diffusione viene trasformata da diritto in obbligo.

E di qui la denunzia di violazione degli artt. 3, 21 e 41 della Costituzione, violazione che questa Corte ritiene del tutto infondata.

Sotto un primo profilo, invero, non vi è dubbio alcuno sul fatto che il legislatore del 1990, all’atto di estendere, registrando la rapida evoluzione del comparto produttivo seguita alle repentine innovazioni tecnologiche, il diritto di radiodiffusione radiofonica e televisiva dalla concessionaria pubblica ai soggetti privati (indicati all’art. 16), abbia consapevolmente inteso porre alla base del complesso e pluralista sistema radiotelevisivo i valori dell’informazione e della cultura (art. 1) e chiaramente collocato la pubblicità, nelle sue varie forme (pubblicità coeva alla stessa radiodiffusione ma essenziale per la nascita e tenuta delle emittenti private), in posizione meramente strumentale rispetto alle finalità esplicite del “sistema radiotelevisivo”, si da riguardarla, sintomaticamente, come oggetto di complessa attività di limitazione o regolamentazione (art.8).

Si tratta – dunque – di una chiarissima scelta di politica legislativa, volta a privilegiare, tra valori costituzionalmente protetti, quelli che trovano il loro referente nell’art. 21 Cost. ed assumendoli a condizione per l’esercizio – con il mezzo della trasmissione radiotelevisiva ed allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica – di un altro diritto fruente di protezione costituzionale, quello all’attività d’impresa.

E la razionalità della scelta, per la quale non possono accedere al “sistema misto radiotelevisivo” italiano emittenti commerciali “monotematiche” (il cui unico scopo sia la sola e continua intermediazione commerciale di altrui prodotti e servizi), riposa, evidentemente, sulla valutazione legislativa della attuale “… sussistenza di una disponibilità dell’etere non sufficiente a garantire un libero accesso nello stesso” (cfr. Corte Cost. 202/76 e, da ultimo, 112/93). E siffatta valutazione, espressa attraverso la pianificazione delle frequenze e la loro assegnazione in regime concessorio limitato, è stata assunta a premessa per la dichiarazione di legittimità costituzionale della stessa instaurazione di tal regime, quale introdotto dalla legge 223 del 1990 (cfr. cit.sent. 112/93 della Corte delle leggi che ha dichiarato infondata questione sollevata con riguardo agli artt. 2, 3, 15, 16 e 32 della legge del 1990) e ritenuto incostituzionale, al contrario, proprio là dove era regolato (art. 15 4° comma l.cit.) in guisa da favorire, a spese del pluralismo “esterno”, il consolidarsi di una “posizione dominante” (Corte Cost. 7.12.94 n. 420).

Sotto il secondo profilo, poi, la ragionevolezza della scelta alla base della norma censurata si impone all’evidenza pur nella sola ottica del parametro costituzionale dell’art. 41. Ed infatti, l’aver ammesso alla partecipazione al regime concessorio le sole emittenti commerciali idonee a fornire trasmissioni in prevalenza informative-culturali e di “intrattenimento” e l’aver confinato in modeste quote orarie e percentuali quelle ad oggetto le “offerte dirette al pubblico” di beni e servizi, è frutto non solo, e come dianzi detto, di una precisa scelta a favore dei preminenti valori tutelati dall’art. 21 Cost. e ben esplicitati nell’art. 1 della legge 223/90, ma anche di una ponderata valutazione, tutta interna all”‘utilità sociale” di interventi attuativi della “disciplina del commercio”, degli “altri” interessi imprenditoriali che una più permissiva disciplina verrebbe a pregiudicare (e con riguardo tanto alle risorse attingibili dalle altre emittenti commerciali quanto alle distorsioni che il penetrante impatto del mezzo televisivo potrebbe ingenerare a carico dei soggetti esercenti le tradizionali forme di distribuzione di beni e servizi).

E poichè è la stessa Corte Costituzionale a rammentare che “…per quanto riguarda la utilità sociale, il potere della Corte concerne solo la rilevabilità dell’intento legislativo di perseguire quel determinato fine e la generica idoneità dei mezzi predisposti per, raggiungerlo” (Corte Cost. 30.7.92 n. 388), è compito di questa Suprema Corte, investita del dubbio di costituzionalità della norma in questione con riguardo al cennato parametro, scrutinare se dal testo della stessa emerga o meno, con prepotente chiarezza, sia l’enunciazione del fine perseguito sia l’indicazione del mezzo apprestato per conseguirlo.

Ditalchè, emergendo l’una e l’altra in modo palese – come indicato nelle testè formulate sintetiche premesse – deve il Collegio dichiarare la questione, anche per tal verso, manifestamente infondata.

Disattesi, pertanto, tutti i profili delle due ammissibili censure proposte avverso l’impugnata sentenza, va respinto il ricorso, disponendo la compensazione delle spese del giudizio in relazione alla novità della questione trattata.

P.Q.M.

la Corte di Cassazione, rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.