9 GIUGNO 2022
SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE (SEZIONE SESTA)
sul ricorso numero di registro generale 10119 del 2020, proposto da
XXX S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati (…, …), con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dello Sviluppo Economico, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Presidenza della Repubblica, non costituita in giudizio;
nei confronti
AAA S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati (…, …, …, …, …), con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
BBB S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati (…, …), con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
CCC, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati (…, …, …), con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
DDD, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati (…, …), con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo per il Lazio, Sez. III, 30 marzo 2020 n. 2814, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti il ricorso in appello incidentale e i relativi allegati di DDD;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dello Sviluppo Economico, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di AAA S.r.l., di BBB S.p.A., di CCC e di DDD;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 giugno 2022 il Cons. Francesco De Luca e uditi per le parti gli avvocati (…, …, …, …, …)
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La società XXX, esercente attività di fornitore di servizi media audiovisivi, editoriali, informativi, quale emittente locale in Piemonte (ad esclusione della provincia del Verbano Cusio Ossola) – dapprima, con ricorso straordinario, successivamente, a seguito di opposizione ex art. 48 c.p.a., con atto di costituzione in sede giurisdizionale – ha impugnato il DPR n. 146/2017 (regolante “i criteri di riparto tra i soggetti beneficiari e le procedure di erogazione delle risorse del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione in favore delle emittenti televisive e radiofoniche locali”), oltre che i relativi atti applicativi, lamentando plurimi vizi di legittimità, comprendenti anche l’incostituzionalità della norma primaria, attributiva del potere regolamentare (art. 1, comma 163, L. n. 208/05).
Nelle more del giudizio, l’impugnativa è stata estesa (con motivi aggiunti) agli ulteriori provvedimenti assunti dal Ministero dello Sviluppo Economico -in relazione alle procedure di concessione dei contributi de quibus per gli anni 2016 e 2017 -, nonché all’art. 4 bis L. n. 18 del 2018 e all’art. 1, comma 1034, L. n. 205 del 2017.
2. Il Tar ha rigettato il ricorso e i motivi aggiunti, ravvisando l’infondatezza delle censure attoree.
In particolare, a giudizio del Tar:
– nel rito, risultava infondata l’eccezione opposta dalle Amministrazioni resistenti e da alcuni soggetti intervenuti ad opponendum, di avvenuta legificazione del regolamento recato nel DPR n. 146/2017 (per effetto dell’art. 4 bis L. n. 108/2018 e dell’art. 1, comma 1034, L. n. 205/2017), tenuto conto che, a prescindere dall’effettivo innalzamento al rango di fonte primaria del regolamento in esame, l’innovazione apportata in via legislativa concerneva le sole domande relative al 2019, senza influire sulle annualità oggetto di giudizio;
– nel merito, non potevano nutrirsi dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 163, L. n. 208/2005, in quanto, da un lato, non risultava specificato sotto quale profilo tale disciplina procurasse rischi per l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni; dall’altro, la delega regolamentare non poteva ritenersi basati su criteri o principi assenti o indeterminati e, comunque, non risultava inficiata da un vizio di manifesta irragionevolezza;
– il carattere nazionale della graduatoria e il carattere assoluto degli elementi di attribuzione del punteggio (non accompagnati da alcun meccanismo perequativo “localistico” che tenesse conto delle notevoli diversità demografiche ed economiche esistenti tra le diverse regioni italiane) non potevano inficiare la legittimità della disciplina regolamentare, in quanto il DPR n. 146/2017 teneva conto della popolazione residente nelle diverse regioni con riguardo alla fase (prodromica rispetto a quella valutativa) di individuazione dei requisiti minimi di ammissione alla procedura, in tale modo risultando compatibile con il principio di proporzionalità e di non discriminazione;
– inoltre, dovevano riconoscersi ampi margini di discrezionalità in capo all’Amministrazione nella scelta di procedimenti e criteri per la ripartizione del Fondo per il pluralismo radiotelevisivo tra le diverse emittenti locali, con la conseguenza che un vizio di legittimità avrebbe potuto riscontrarsi soltanto in caso di evidente incompatibilità tra la disciplina regolamentare e i principi fissati in via primaria oppure di macroscopica illogicità ed irragionevolezza delle scelte regolamentari rispetto allo scopo perseguito o, più in generale, all’interesse pubblico;
– incompatibilità, illogicità e irragionevolezza nella specie non riscontrabili, alla stregua di quanto pure emergente dall’esito delle procedure concessorie, attestante il collocamento nelle prime cento posizioni di operatori esercenti attività in contesti regionali demograficamente svantaggiati;
– peraltro, nelle regioni più popolose il mercato dei programmi televisivi risultava conteso tra un numero maggiori di emittenti, sicché “in presenza di una offerta nettamente superiore risulta dunque più difficile “fare audience” nelle regioni più popolose piuttosto che in quelle demograficamente meno rilevanti”;
– i dati auditel costituivano, parimenti, un parametro immune da vizi di legittimità, in quanto le emittenti televisive commerciali non potevano prescindere dalla rilevazione dei dati di ascolto per la programmazione dei propri obiettivi economici e strategici, operando in un mercato nel quale la remunerazione dell’attività dipendeva anche dalla vendita di spazi pubblicitari, il cui valore era direttamente proporzionale ai dati di ascolto;
– peraltro, gli operatori del settore erano stati informati già con le linee guida del 9 maggio 2016 della futura adozione di nuovi criteri che avrebbero imposto l’onere della rilevazione dei dati auditel nell’interesse delle emittenti, con conseguente mancata emersione di una lesione dell’affidamento;
– non potevano ritenersi neppure sussistenti specifici elementi per contestare l’attendibilità tecnica e l’imparzialità della rilevazione dei dati di ascolto;
– il decreto ministeriale per l’acconto 2016 risultava giustificato, tra l’altro, dalla mancata sospensione del DPR n. 146/2017 e dall’obbligo di pagamento previsto dall’art. 5, comma 7, dello stesso regolamento.
3. La ricorrente in primo grado ha appellato la sentenza pronunciata dal Tar, deducendone l’erroneità con l’articolazione di plurime censure.
4. BBB s.p.a., CCC, il Ministero dello sviluppo economico, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’economia e delle finanze si sono costituiti in giudizio, resistendo al ricorso.
5. DDD ha appellato in via incidentale la sentenza di prime cure, deducendone l’erroneità nella parte in cui ha escluso l’improcedibilità del ricorso originario per sopravvenuta carenza di interesse, in conseguenza dell’asserita legificazione del regolamento, operata con l’art. 4 bis D.L. n. 91 del 2018 conv. con L. n. 108/18.
5.1 Al riguardo, la parte appellante incidentale, con due motivi di censura, ha dedotto il difetto di motivazione della sentenza gravata:
– non avendo il Tar verificato se l’art. 4 bis D.L. n. 91 del 2018 conv. con L. n. 108/18 avesse determinato una legificazione della disciplina regolamentare; in ogni caso, il Tar avrebbe errato nel ritenere che un’interpretazione tesa ad applicare lo jus superveniens alle annualità oggetto di giudizio sollevasse dubbi di legittimità costituzionale, in quanto la rilegificazione sarebbe intervenuta prima dell’approvazione della graduatoria definitiva degli emittenti e, comunque, nessun vuoto di tutela si sarebbe generato, trasferendosi la tutela dalla sede della giurisdizione amministrativa a quella costituzionale;
– non avendo il Tar rappresentato le ragioni per cui il comma 1034 dell’art. 1 della Legge 27 dicembre 2017, n. 205 non fosse idoneo a determinare la legificazione della disciplina regolamentare, sebbene si trattasse di una previsione tesa ad elevare a rango primario i criteri stabiliti in sede regolamentare, al pari di quanto previsto per i criteri deputati alla formazione della graduatoria degli operatori di rete di cui al comma 1033 dell’art. 1 della Legge 27 dicembre 2017, n. 205, dettati da disposizioni primarie.
5.2 La stessa DDD:
– da un lato, ha eccepito l’inammissibilità dell’appello, in quanto: a) non notificato a tutti i soggetti graduati, nei cui confronti il Tar aveva disposto l’integrazione del contraddittorio, tenuto conto, pure, che l’appellante non aveva presentato istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami; nonché b) generico, incentrandosi sulla riproposizione delle censure svolte in prime cure;
– dall’altro, ha riproposto l’eccezione di inammissibilità del motivo di ricorso riguardante la violazione delle regole di concorrenza conseguente alla previsione del criterio di valutazione sui dati di ascolto, trattandosi di doglianza ritenuta generica.
6. In vista della camera di consiglio fissata per la discussione della domanda cautelare articolata dall’appellante, le Amministrazioni statali intimate, CCC, BBB s.p.a., XXX hanno depositato memorie difensive, insistendo nelle rispettive conclusioni.
In particolare, CCC e BBB s.p.a. hanno pure argomentato sulla base dell’avvenuta legificazione della disciplina regolamentare (per effetto dell’art. 4 bis D.L. n. 91/18 cit.) e hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso in appello per genericità.
L’appellante ha pure chiesto l’autorizzazione alla notificazione del ricorso in appello per pubblici proclami ex art. 41, comma 4, c.p.a.
7. Con ordinanza n. 3792 del 2021, la Sezione ha disposto l’integrazione del contraddittorio, per mezzo di notifica per pubblici proclami.
8. In data 14 aprile 2021 la società AAA s.r.l. si è costituita in giudizio, resistendo al ricorso.
9. In data 5 agosto 2021 la parte ricorrente ha provveduto al deposito della documentazione riferita alla notificazione per pubblici proclami del ricorso in appello ex art. 150 c.p.c.
10. In vista dell’udienza di discussione dell’appello, fissata per il giorno 14 ottobre 2021, la società AAA, DDD, CCC e l’appellante hanno depositato memoria conclusionale, insistendo nelle rispettive conclusioni
L’appellante e CCC hanno pure depositato repliche alle avverse deduzioni.
AAA ha eccepito l’inammissibilità dell’appello (in specie del secondo motivo in relazione ai dati di ascolto) per genericità, nonché ha depositato documentazione a supporto delle proprie tesi difensive, incentrate sull’attendibilità dell’indice di ascolto dalla stessa rilevato e sulla propria posizione di neutralità in ragione della peculiare composizione societaria che la caratterizza.
L’appellante ha eccepito l’inammissibilità e/o l’improcedibilità del ricorso in appello incidentale, in quanto non notificato a tutte le parti del giudizio e privo dell’istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami.
11. La Sezione, con ordinanza n. 1205 del 18 febbraio 2022, ha autorizzato la parte ricorrente alla notificazione del ricorso in appello, della sentenza impugnata e del ricorso di primo grado per pubblici proclami, precisando che tale comunicazione avrebbe dovuto essere trasmessa dalla ricorrente in appello, entro il termine di trenta giorni, al Ministero dello sviluppo economico, che avrebbe dovuto provvedere alla pubblicazione sul proprio sito istituzionale e con prova dell’avvenuta notifica da darsi mediante deposito nel PAT entro i successivi venti giorni a decorrere dall’avvenuta pubblicazione.
12. L’appellante, in data 22 marzo 2022, ha depositato la documentazione attestante l’avvenuto adempimento dell’ordine di integrazione del contraddittorio, secondo le modalità indicate con l’ordinanza n. 1205 del 2022 (cfr., altresì, attestazione ministeriale n. 18873 del 21 marzo 2022).
13. In vista dell’udienza pubblica di discussione, CCC e DDD hanno depositato memoria conclusionale, argomentando a sostegno delle proprie conclusioni; l’appellante ha replicato alle avverse deduzioni anche sulla base di un riferimento dottrinario prodotto sub doc. 30.
14. Nell’udienza pubblica del 9 giugno 2022, fissata per la discussione del ricorso in appello, il Collegio ha rilevato, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. dandone comunicazione alle parti con dichiarazione raccolta a verbale, una questione di possibile inammissibilità del ricorso in appello incidentale, per difetto di legittimazione ad appellare in capo all’interventore ad opponendum nel giudizio di primo grado.
15. All’esito della discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Preliminarmente, devono essere scrutinate le eccezioni di rito, con cui alcune parti intimate hanno dedotto:
– l’inammissibilità dell’appello principale, sia per omessa notificazione a tutti i controinteressati, sia per la genericità delle censure impugnatorie;
– l’inammissibilità della censura incentrata sulla violazione delle regole di concorrenza, per effetto della previsione, quale criterio di valutazione, dei dati di ascolto rilevati dall’Auditel, trattandosi di eccezione generica (eccezione riproposta da DDD).
1.1. Le eccezioni sono infondate.
1.2 Quanto alla contestata mancata notificazione del ricorso in appello a tutte le parti controinteressate, si osserva che, ai sensi dell’art. 95, commi 1-4, c.p.a. “1. L’impugnazione della sentenza pronunciata in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti è notificata, a tutte le parti in causa e, negli altri casi, alle parti che hanno interesse a contraddire. 2. L’impugnazione deve essere notificata a pena di inammissibilità nei termini previsti dall’articolo 92 ad almeno una delle parti interessate a contraddire. 3. Se la sentenza non è stata impugnata nei confronti di tutte le parti di cui al comma 1, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro cui la notificazione deve essere eseguita, nonché la successiva udienza di trattazione. 4. L’impugnazione è dichiarata improcedibile se nessuna delle parti provvede all’integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice”.
Ne deriva che il ricorso in appello può essere dichiarato inammissibile soltanto se, nel termine di impugnazione all’uopo applicabile, la parte ricorrente non abbia notificato la propria impugnazione ad alcuna delle parti interessate a contraddire: diversamente, ove il ricorso in appello sia stato notificato ad almeno un controinteressato all’impugnazione, in presenza di altre parti necessarie non ancora evocate, l’unica conseguenza suscettibile di prodursi sul piano processuale è la necessità, anziché di dichiarare inammissibile l’appello, di ordinare l’integrazione del contraddittorio entro il termine fissato dal giudice procedente.
Nel caso di specie, l’appellante ha notificato a mezzo PEC il ricorso in appello tempestivamente (tenuto conto della sospensione feriale e della sospensione dei termini ex art. 84 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 e art. 36, comma 3, del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40) nei confronti di almeno una parte interessata a contraddire (tra gli altri, il Ministero dello Sviluppo Economico), con la conseguente mancata integrazione di una causa di inammissibilità del gravame.
Lo stesso appellante ha, peraltro, tempestivamente ottemperato all’ordine di integrazione del contraddittorio, comprovato dal tempestivo deposito della documentazione giustificativa delle attività svolte, in tale modo non incorrendo neppure in una causa di improcedibilità del ricorso.
1.3 Parimenti, devono essere disattese le eccezioni di inammissibilità, per genericità, dell’appello e delle censure svolte dalla parte ricorrente in primo grado.
Per “risalente e non superato insegnamento giurisprudenziale, l’appello deve sempre contenere, accanto alla parte volitiva, anche una parte critica, a confutazione della sentenza di primo grado, non trattandosi di un novum iudicium ma di una revisio prioris istantiae” (Consiglio di Stato, sez. IV, 18 febbraio 2020, n. 1228).
Nel caso di specie, l’appellante:
– ha puntualmente individuato le rationes decidendi sottese alla pronuncia impugnata, relative alla manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale poste in ricorso, nonché alla legittimità dei criteri regolamentari dettati per la formazione della graduatoria e la distribuzione dei contributi economici oggetto di giudizio;
– come si osserverà amplius nella disamina dei motivi di impugnazione, ha dedotto specifiche argomentazioni in contrapposizione a quelle svolte dal primo giudice, idonee ad incrinare l’impianto motivazionale alla base della pronuncia appellata, evidenziando che: a) la fonte primaria del potere regolamentare doveva ritenersi incostituzionale, difettando di criteri direttivi specifici, contravvenendo al divieto costituzionalmente rilevante di inserimento in legge di bilancio di disposizioni riferite ad interventi settoriali o locali, nonché prevedendo una disciplina irragionevole; b) i criteri regolamentari risultavano incompatibili con i principi posti dalla fonte sovraordinata, introducendo una graduatoria nazionale a fronte di contributi da erogare su base locale, richiamando un parametro (indice di ascolto) applicato anche in via retroattiva, in violazione del legittimo affidamento degli operatori, inattendibile, posto da un soggetto economico non neutrale e in violazione dei principi in materia di concorrenza (attraverso la creazione di una posizione di dominanza nel mercato e la produzione di uno svantaggio competitivo per gli operatori esercenti in realtà locali meno popolate, con conseguente emersione, anche in relazione ai profili concorrenziali, di specifiche censure).
L’eventuale assenza di specifici elementi probatori a sostegno delle censure attoree non è, invece, idonea a determinare l’inammissibilità del ricorso (o dei singoli motivi di impugnazione), comunque articolato in maniera specifica quale puntuale critica alla sentenza gravata, bensì rileva, nel merito, ai fini del rigetto della relativa doglianza per difetto di prova.
Per l’effetto, l’appellante non si è limitata a riproporre le deduzioni svolte dinnanzi al primo giudice, ma ha specificatamente contestato il decisum recato dalla pronuncia impugnata, con la conseguenza che i singoli motivi di impugnazione -e l’appello nel suo complesso- devono ritenersi ammissibili.
2. Sempre in via preliminare, occorre statuire sulla questione di inammissibilità dell’appello incidentale per difetto di legittimazione attiva, posta alle parti dal Collegio nell’udienza di discussione del 9 giugno 2022.
2.1 In primo luogo, si osserva che la mancanza dei presupposti processuali o delle condizioni dell’azione è rilevabile d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (art. 35, comma primo, c.p.a.), facendosi questione dei fattori cui la legge, per inderogabili ragioni di ordine pubblico, subordina l’esercizio dei poteri giurisdizionali (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, 28 settembre 2016, n. 4024).
Nel caso di specie, si discorre della legittimazione all’impugnazione, questione afferente ad una condizione dell’azione impugnatoria (e, dunque, del diritto ad ottenere dal giudice ad quem una pronuncia sul merito dell’appello), la cui carenza è, per quanto considerato, rilevabile in via ufficiosa dal giudice procedente, con l’unico limite della sua sottoposizione al contraddittorio delle parti, come nella specie avvenuto ex art. 73, comma 3, c.p.a. nell’udienza pubblica del 9 giugno 2022.
Ciò premesso, al fine di risolvere la questione di inammissibilità dell’appello incidentale, deve aversi riguardo al disposto dell’art. 102 c.p.a. secondo cui “1. Possono proporre appello le parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado. 2. L’interventore può proporre appello soltanto se titolare di una posizione giuridica autonoma”.
2.2 La legittimazione all’appello deve essere, in particolare, riconosciuta soltanto in favore:
– di colui che abbia assunto la posizione di parte necessaria del giudizio a quo, per aver proposto il ricorso in primo grado o per aver ricevuto la notificazione del ricorso in quanto titolare di un interesse sostanziale, giuridicamente rilevante, alla conservazione del provvedimento impugnato;
– di colui che, non intimato in giudizio mediante la notificazione del ricorso, ma intervenuto volontariamente nel processo inter alios pendente (al ricorrere dei presupposti delineati dall’art. 28 c.p.a.), sia comunque titolare di una posizione giuridica autonoma su cui la sentenza abbia statuito.
Con specifico riferimento alla posizione dell’interventore in prime cure, la relazione finale al codice del processo amministrativo ha richiamato i principi enunciati dalla decisione dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 2 del 1996, in forza della quale “l’interventore ad opponendum nel giudizio di primo grado è legittimato a impugnare la sentenza quando risulti titolare di una propria e autonoma posizione giuridica e non di un semplice interesse di fatto”.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, in particolare, precisato che “il concetto di “posizione giuridica autonoma” va inteso … come riferito alla posizione dell’interventore in rapporto alla sentenza di primo grado ed alle statuizioni che specificamente lo concernono” (Consiglio di Stato, sez. III, 8 giugno 2016, n. 2451).
L’autonomia della posizione giuridica dell’interventore – da valutare al fine di ricostruire la legittimazione all’appello – può essere verificata avendo riguardo:
– sul piano sostanziale, alla natura dell’interesse sotteso all’atto di intervento;
– sul piano processuale, alla posizione assunta dall’interventore nel processo inter alios pendente.
2.3 Sotto il profilo sostanziale, è possibile distinguere a seconda che l’interesse sotteso all’atto di intervento sia autonomo ovvero dipendente: nel primo caso l’interventore vanta una propria situazione giuridica soggettiva direttamente correlata al provvedimento impugnato; nel secondo caso, invece, fa valere una situazione giuridica dipendente da quella ascrivibile in capo a taluna delle parti originarie del processo o una situazione giuridica che, seppure non autonoma o dipendente, sia comunque idonea a differenziare l’interventore dalla generalità dei consociati, risentendo lo stesso in via indiretta e riflessa degli effetti dell’emananda sentenza (sulla differente connotazione dell’interesse legittimante l’intervento e sulla necessità di limitare la legittimazione all’appello ai soli interventori titolari di una posizione giuridica autonoma, cfr. anche Consiglio di Stato, sez. V, 21 marzo 2018, n. 1811; id., sez. IV, 28 febbraio 2017, n. 914; id., sez. VI, 24 febbraio 2014, n. 867).
Nelle azioni di annullamento (rilevanti nella presente sede, risultando il ricorso di prime cure diretto ad ottenere l’annullamento di atti amministrativi riguardanti la concessione dei contributi economici per l’emittenza locale), l’autonomia della posizione giuridica è ravvisabile nelle ipotesi in cui l’interventore assuma la qualità di cointeressato o controinteressato rispetto all’azione proposta dal ricorrente principale (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 27 aprile 2018, n. 02571), a seconda che, pertanto, vanti un interesse, autonomo e coincidente rispetto a quello del ricorrente in primo grado, alla rimozione del provvedimento impugnato in via principale (cointeressato al ricorso – la cui legittimazione all’intervento e all’impugnazione, comunque, non deve essere scrutinata nella presente sede in quanto irrilevante ai fini decisori, non ravvisandosi in capo all’odierna appellante incidentale una posizione di cointeresse al ricorso di primo grado – cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29 marzo 2019, n. 2094) ovvero un interesse, eguale e contrario, al mantenimento della situazione esistente, messa in forse dal ricorso, fonte di una posizione qualificata meritevole di tutela conservativa, suscettibile di essere pregiudicata dall’eventuale emissione di una sentenza di accoglimento del ricorso (controinteressato al ricorso – cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 6 giugno 2019, n. 3911).
In siffatte ipotesi, la posizione sottesa all’intervento non risulta dipendente da quella ascrivibile in capo alle parti originarie del giudizio, concorrendo a costituire direttamente il rapporto amministrativo litigioso.
2.4 Sul piano processuale, l’autonomia della posizione dell’interventore è apprezzabile in relazione a quei capi di sentenza che abbiano dichiarato l’inammissibilità dell’intervento o abbiano condannato l’interventore al pagamento delle spese processuali (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 22 maggio 2019, n. 3339; Consiglio di Stato, sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 507).
In tali ipotesi, si verte in tema di statuizioni giudiziali, direttamente riferibili ad una posizione autonoma dell’interventore, come tali suscettibili di essere censurati in appello ex art. 102, comma 2, c.p.a.
2.5 L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso di specie conduce alla dichiarazione di inammissibilità dell’appello incidentale.
2.5.1 Nella specie, si fa questione di un’impugnazione proposta da un soggetto (DDD) che, in primo grado, rivestiva la posizione di interventore ad opponendum (cfr. atto di intervento ad opponendum depositato dinnanzi al Tar in data 7 gennaio 2019).
Come emerge dallo stesso atto di intervento, l’Associazione ha rappresentato un interesse ad opporsi all’iniziativa giudiziaria altrui quale associazione di categoria, aderente a EEE, rappresentativa di diverse imprese del settore, interessate a partecipare al procedimento di ripartizione dei contributi pubblici secondo le nuove disposizioni regolamentari impugnate in prime cure.
2.5.2 Secondo quanto precisato da questo Consiglio (sez. III, 2 marzo 2020, n. 1467), la legittimazione ad causam delle associazioni di categoria è incentrata sulla titolarità di un interesse “collettivo”, geneticamente derivante da un processo di impersonificazione di interessi cd “diffusi”, ossia interessi omogeneamente distribuiti nella collettività o nella categoria di riferimento, sebbene giuridicamente latenti, in quanto non dotati, a livello individuale, di rilievo giuridico immediato, in ragione dell’insussistenza del requisito della differenziazione che tradizionalmente qualifica la situazione giuridica dell’interesse legittimo.
In subiecta materia, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 6 del 2020) ha distinto le situazioni soggettive ascrivibili al singolo dall’interesse collettivo riconoscibile in capo all’Associazione; in particolare, si è osservato che l’Associazione non agisce a tutela di una sommatoria di interessi individuali, rientranti nella titolarità degli appartenenti alla collettività o categoria rappresentata, bensì fa valere una situazione giuridica propria: “Essa è relativa ad interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni. Non in forza di una fictio ma di un giudizio di individuazione e selezione degli interessi da proteggere, nonché della rigorosa verifica della rappresentatività del soggetto collettivo che ne promuove la tutela”.
2.5.3 Tenuto conto della necessaria differenziazione delle situazioni giuridiche soggettive ascrivibili all’ente rappresentativo e ai soggetti rappresentati, nel caso in esame, la sfera giuridica di DDD non risultava direttamente incisa dalle disposizioni regolamentari impugnate e dagli atti amministrativi censurati dinnanzi al Tar.
In particolare, tali atti non attribuivano alcuna utilità diretta a DDD, che pertanto non poteva qualificarsi come controinteressata all’impugnazione.
Tale ultima qualità può essere riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma (solo) a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. VI, 9 giugno 2020, n. 3685).
Di regola, il controinteressato è colui che acquista una situazione giuridica soggettiva attiva per effetto della determinazione da altri impugnata e che, dunque, in caso di accoglimento dell’avverso ricorso, in conseguenza dell’annullamento dell’atto censurato, subirebbe un pregiudizio immediato e diretto, dato dalla perdita della situazione di vantaggio riconosciuta in sede amministrativa.
DDD, tuttavia, non risultava direttamente beneficiata dagli atti impugnati in prime cure, tenuto conto che le disposizioni regolamentari, caratterizzate dal contenuto generale e astratto, non risultavano connotate da un contenuto provvedimentale favorevole a DDD in parola, mentre gli atti di approvazione delle graduatorie formate all’esito delle procedure concessorie in contestazione risultavano sì idonei ad attribuire posizioni di vantaggio, ma soltanto in favore degli operatori economici utilmente collocati in graduatoria, titolari di situazioni giuridiche soggettive (come osservato) non confondibili con quella ascrivibile in capo a DDD odierna appellante.
Ne deriva che, sul piano sostanziale, DDD non risultava titolare di una posizione giuridica autonoma incisa dagli atti impugnati, non potendo, dunque, ravvisarsi sotto tale profilo, una posizione legittimante all’impugnazione della sentenza emessa a definizione del primo giudizio.
2.5.4 Parimenti, sul piano processuale, l’autonomia della posizione ascrivibile in capo a DDD appellante incidentale avrebbe potuto riscontrarsi (come osservato) soltanto in relazione agli eventuali capi decisori sfavorevoli, riguardanti l’ammissibilità dell’intervento o la condanna dell’interventore al pagamento delle spese di lite.
Nella specie, tuttavia, l’appello incidentale non è diretto a denunciare tali statuizioni sfavorevoli (peraltro, non presenti, mancando una dichiarazione di inammissibilità dell’appello o di condanna di DDD al pagamento delle spese di giudizio), bensì tende a censurare la mancata dichiarazione di improcedibilità del ricorso di primo grado, negata dal Tar con una motivazione (riferita alla legificazione del regolamento) ritenuta dall’appellante incidentale lacunosa ed erronea.
2.5.5 In conclusione, facendosi questione di azione impugnatoria proposta da un interventore ad opponendum in prime cure, che non è titolare di una posizione giuridica autonoma sul piano sostanziale e processuale, l’appello incidentale deve essere dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione attiva.
Per l’effetto, stante l’inammissibilità dell’impugnazione incidentale e in considerazione della mancata proposizione sul punto di altra impugnazione a cura delle parti legittimate, il capo decisorio con cui il Tar ha escluso una legificazione della disciplina regolamentare influente sulle annualità controverse, deve ritenersi passato in giudicato, recando, dunque, un accertamento in parte qua incontrovertibile nell’odierna sede processuale.
Di conseguenza, anche le difese svolte dalle altre parti intimate, incentrate sull’avvenuta legificazione del DPR n. 146/2017, non possono essere favorevolmente scrutinate, in quanto tendenti ad ottenere un accertamento contrario a quello rilevato nella sentenza gravata, in parte qua passata in giudicato per omessa impugnazione.
2.6 Per tali ragioni, soltanto per mera completezza espositiva e senza possibilità di influire sul giudicato interno in parte qua formatosi inter partes, il Collegio ritiene di svolgere brevi considerazioni sul merito delle doglianze proposte dall’appellante incidentale e dalle parti intimate, evidenziando come si sia in presenza di deduzioni che non sarebbero state, comunque, idonee a condurre alla dichiarazione di improcedibilità del ricorso di primo grado.
La tesi di DDD e di alcune delle parti intimate (alla luce di quanto illustrato nella parte in fatto della presente decisione, deputata alla ricostruzione degli eventi processuali) è, in particolare, quella dell’avvenuta legificazione delle disposizioni regolamentari recate nel DPR n. 146/2017, per effetto dell’art. 4 bis D.L. n. 91 del 2018 conv. con L. n. 108/18 e, ancor prima, dell’art. 1, comma 1034, Legge n. 205 del 2017.
Tale tesi non sembra condivisibile.
2.6.1 La legificazione di una pregressa disciplina regolamentare potrebbe, infatti, riscontrarsi nelle sole ipotesi in cui una disposizione primaria sopravvenuta operi un rinvio recettizio o materiale a pregresse disposizioni, con l’effetto di produrre una novazione della fonte, elevandosi la norma richiamata al rango primario, attraverso la recezione o l’incorporazione della norma richiamata in quella richiamante (Corte costituzionale, 3 maggio 2013, n. 80).
In subiecta materia, deve distinguersi tra rinvio meramente formale, concernente “la fonte e non la norma”, e rinvio recettizio (o materiale), “indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua” (Corte costituzionale, 7 novembre 2014, n. 250)
A tali ultimi fini, peraltro, non è sufficiente che una norma richiami testualmente e in maniera specifica un’altra, per concludere che la prima abbia voluto incidere sulla condizione giuridica della seconda o dei suoi contenuti – essendo un tale rinvio anche compatibile con la mera indicazione della fonte competente a regolare una determinata materia, senza mutare forza e valore della norma richiamata – , bensì occorre che la volontà del legislatore di recepire mediante rinvio sia espressa oppure sia desumibile da elementi univoci e concludenti (Corte costituzionale, 20 novembre 2014, n. 258).
Con specifico riferimento alla materia amministrativa, la giurisprudenza costituzionale ha, inoltre, elaborato una “presunzione di rinvio formale agli atti amministrativi, ove gli stessi siano richiamati in una disposizione legislativa, tranne che la natura recettizia del rinvio stesso emerga in modo univoco dal testo normativo (sentenza n. 311 del 1993); circostanza, questa, che non ricorre necessariamente neppure quando l’atto sia indicato in modo specifico dalla norma legislativa (sentenze n. 80 del 2013 e n. 536 del 1990)” (Corte costituzionale, 9 maggio 2013, n. 85).
Un intervento di legificazione, peraltro, non potrebbe essere neppure in astratto precluso dalla pendenza di giudizi riferiti all’atto amministrativo da recepire, essendosi precisato che “il legislatore è sempre libero di disciplinare con propri atti settori rispetto ai quali, in considerazione della riserva di legge (relativa) stabilita dall’art. 97 Cost., ritiene sulla base di un proprio apprezzamento discrezionale, che vi sia un’insufficiente copertura legale» e precisando che alla legificazione non è di ostacolo il fatto che siano stati adottati in materia provvedimenti di sospensiva da parte del giudice amministrativo” (Corte costituzionale, Ord., 30 ottobre 2006, n. 352).
2.6.2 La legificazione, inoltre, producendo un effetto novativo della fonte (così Corte costituzionale, 3 maggio 2013, n. 80), quando determina l’elevazione di una norma regolamentare al rango primario, non sembra possa operare sempre in via retroattiva: ciò, in quanto, da un lato, vi osta il principio generale di irretroattività della legge, con conseguente operatività soltanto pro futuro, in relazione ai rapporti ancora non sorti, dell’effetto novativo riconducibile al rinvio recettizio o materiale; dall’altro, una tale soluzione sembra maggiormente compatibile con lo stesso effetto novativo, implicante per propria natura -anche in ambito civilistico (Cass. civ. Sez. Unite, 24 giugno 2005, n. 13294) – l’estinzione della precedente regula iuris e la sua sostituzione con una nuova di fonte sovraordinata, con conseguente emersione di un effetto estintivo assimilabile a quello abrogativo, tale da non impedire alla norma abrogata di continuare a disciplinare i rapporti sorti sotto la sua vigenza, non ancora esauriti (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia, 6 agosto 2018, n. 473).
L’irretroattività della legificazione sembra, peraltro, coerente con la giurisprudenza formatasi in materia di delegificazione, costituente un istituto che pur differente, ha alcuni elementi di analogia con la legificazione, assistendosi in entrambe le ipotesi al mutamento del grado della fonte regolatrice di una data materia: la delegificazione, in particolare, si caratterizza per il trasferimento, ex lege, della funzione normativa (su materie e attività determinate) dalla sede legislativa ad altra sede, con la conseguenza che un soggetto o un organo, diverso da quello cui spetta ordinariamente l’esercizio della funzione legislativa, ha la facoltà di regolare una determinata materia, adottando una disciplina sostitutiva di quella già dettata dalla legge; la legge che “autorizza” la delegificazione non priva della loro forza le leggi che saranno sostituite dai regolamenti, ma ne predetermina l’abrogazione, che si produrrà con l’entrata entrata in vigore del regolamento (Corte costituzionale, 6 giugno 2016, n. 130).
Sebbene la delegificazione operi diversamente dalla legificazione (in cui, ad esempio, non vi è una scissione tra l’entrata in vigore della norma primaria e l’effetto novativo della fonte, producendo la norma primaria l’immediata incorporazione di quella secondaria), sembra, comunque, che in entrambe le ipotesi il mutamento del grado della fonte regolatrice si produca attraverso l’abrogazione della normativa previgente (nell’un caso legificata, nell’altro delegificata) e nella sua sostituzione con una nuova normativa, di fonte diversa, operante soltanto pro futuro, con la conseguenza che la normativa richiamata (ai fini legificanti o delegificanti) continua a disciplinare i rapporti sorti sotto la sua vigenza.
Un tale effetto novativo, suscettibile di prodursi soltanto pro futuro, sembra, tuttavia, da un lato, caratteristico della sola legificazione di norme secondarie, non operando per la legificazione di atti amministrativi, dall’altro, derogabile dal legislatore, non assumendo il principio di irretroattività della legge valenza costituzionale, se non in materia penale (Consiglio di Stato Sez. IV, 1 aprile 2011, n. 2047; Corte costituzionale, 23 marzo 2021, n. 46).
Difatti, nella prima ipotesi (legificazione di un atto amministrativo), l’effetto novativo della fonte regolatrice di un dato rapporto comporta la sopravvenuta inefficacia del provvedimento amministrativo, non più operante per la regolazione del caso concreto: in tali ipotesi, l’unica fonte di disciplina del rapporto particolare e concreto già sorto in ambito sostanziale non potrebbe che essere la legge provvedimento, non potendo predicarsi l’ultrattività di un atto amministrativo ormai inefficace.
Di conseguenza, il ricorso nelle more proposto avverso l’atto amministrativo legificato dovrebbe essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, non potendo il ricorrente più trarre alcuna utilità concreta dall’accoglimento di un’impugnazione che, in quanto indirizzata contro un atto amministrativo ormai inefficace, sarebbe inidonea a rimuovere la lesione giuridica che la parte continua a patire in ragione della sopravvenuta legificazione dell’atto impugnato.
Come osservato da questo Consiglio, “la sopravvenienza di una “legge-provvedimento”, ossia di un atto formalmente legislativo che tiene, tuttavia, luogo di provvedimenti amministrativi in quanto dispone in concreto su casi e rapporti specifici, determina ex se l’improcedibilità del ricorso proposto contro l’originario atto amministrativo, in quanto il sindacato del giudice amministrativo incontra un limite insormontabile nell’intervenuta legificazione del provvedimento amministrativo”, con la precisazione che, in tali ipotesi, “nel caso di approvazione con legge di un atto amministrativo lesivo dei propri interessi, i diritti di difesa del soggetto leso non vengono ablati, ma si trasferiscono dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale” (Consiglio di Stato, sez. IV, 9 marzo 2012, n. 1349).
Nella seconda ipotesi (legificazione di un regolamento), la retroattività dell’effetto novativo può discendere dalla volontà del legislatore, in deroga al principio generale di irretroattività della legge ex art. 11 disp. prel. c.c.: la norma sopravvenuta, incorporando la norma secondaria, ne produce un’abrogazione retroattiva, con conseguente necessità di applicare la fonte primaria anche per la disciplina dei rapporti sorti durante la vigenza della norma incorporata.
La retroattività dell’effetto di legificazione, peraltro, potrebbe pure desumersi implicitamente dalla finalità sottesa all’intervento normativo, come accade a fronte delle leggi di sanatoria (peraltro, di regola, promulgate proprio in legificazione di atti amministrativi, confermandosi in parte qua il naturale effetto retroattivo della legificazione provvedimentale – Corte cost., Ord., 30 ottobre 2006, n. 352), in cui l’effetto novativo non potrebbe che operare in via retroattiva, rimuovendo ex tunc il vizio inficiante la norma incorporata.
2.6.3 Alla luce di tali rilievi, non sembra che nella specie si sia realizzata una legificazione del DPR n. 146/2017 in via retroattiva, che sola sarebbe stata foriera della improcedibilità del ricorso proposto in primo grado.
2.6.4 Difatti, quanto all’art. 1, comma 1034, Legge 27 dicembre 2017, n. 205, si è in presenza di una disciplina con cui, al fine di determinare i soggetti in condizione di utilizzare la capacità trasmissiva di cui al comma 1033, è stato soltanto previsto l’obbligo, per il Ministero dello sviluppo economico, di avviare le procedure per predisporre, per ciascuna area tecnica, una graduatoria dei soggetti legittimamente abilitati quali fornitori di servizi di media audiovisivi in ambito locale, “applicando, per ciascun marchio oggetto di autorizzazione, i criteri stabiliti dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146”.
In tale caso, in assenza di elementi testuali contrari, pur sempre necessari (come osservato) per qualificare un rinvio in termini recettizi, il mero rinvio ai criteri stabiliti dal DPR n. 146/2017 non sembra denotare una univoca volontà del legislatore di incorporare la norma secondaria, esaurendosi in un mero rinvio alla fonte competente a regolare una determinata materia (quella dei criteri e le procedure per l’erogazione delle pubbliche contribuzioni alle emittenti televisive e radiofoniche locali), di cui non sono stati mutati la forza e il valore.
Anche la circostanza per cui i criteri previsti per la formazione della graduatoria degli operatori di rete di cui al comma 1033 fossero dettati da disposizioni primarie non avrebbe potuto condurre a risultati differenti, essendosi in presenza di procedure non identiche, che il legislatore ha ritenuto di regolare diversamente, nel primo caso (criteri e le procedure per l’erogazione delle pubbliche contribuzioni alle emittenti televisive e radiofoniche locali) attraverso il conferimento del potere regolamentare (art. 1, comma 163, L. 28 dicembre 2015, n. 208, non attinta dall’art. 1, comma 1034, L. n. 205/17), nel secondo (procedure di selezione per l’assegnazione dei diritti d’uso delle frequenze per il servizio televisivo digitale terrestre ad operatori di rete, ai fini della messa a disposizione di capacità trasmissiva ai fornitori di servizi di media audiovisivi in ambito locale) attraverso criteri direttamente dettati dalla fonte primaria (art. 1, comma 1033, L. n. 205/17).
2.6.5 Parimenti, l’art. 4 bis D.L. n. 91 del 2018 conv. con L. n. 108/18, pure contenendo elementi testuali che sembrano deporre per la natura ricettizia del rinvio al DPR n. 146/2017, non pare abbia prodotto effetti retroattivi, in tale maniera non inibendo la possibilità di applicare la disciplina regolamentare alle annualità rilevanti nell’odierno giudizio.
In particolare, con tale intervento normativo, il legislatore, nell’aggiungere all’articolo 4, comma 2, ultimo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146, dopo le parole «alla data di presentazione della domanda», le seguenti: «, mentre per le domande inerenti all’anno 2019 si prende in considerazione il numero medio di dipendenti occupati nell’esercizio precedente, fermo restando che il presente requisito dovrà essere posseduto anche all’atto della presentazione della domanda », ha espressamente previsto che il relativo regolamento dovesse «intendersi qui integralmente riportato», in tale modo sembrando operare un recepimento della relativa disciplina secondaria, contestualmente modificata con l’inserimento di un’ulteriore disposizione all’art. 4, comma 2, cit.
Tale recepimento, tuttavia, è stato operato “al fine di estendere il regime transitorio anche all’anno 2019” e, dunque, pro futuro, in relazione alla disciplina da applicare per la successiva annualità 2019.
In tali ipotesi, richiamando le considerazioni svolte, non facendosi questione di legificazione di un atto provvedimentale, né di un intervento normativo derogatorio del principio di irretroattività della legge (non emergendo una volontà contraria, esplicita o implicita, dal legislatore, che anzi ha espressamente giustificato il rinvio al DPR n. 146/2017 ai fini della regolazione di una futura annualità), non sembra che l’eventuale legificazione abbia determinato la caducazione ex tunc della fonte regolamentare contestata in prime cure, operando soltanto pro futuro, in relazione all’annualità 2019.
Di conseguenza, rilevando nell’odierno giudizio le annualità 2016 e 2017 e risultando le stesse ancora soggette alla disciplina regolamentare – che pure ove legificata, lo sarebbe stato solo pro futuro – non avrebbe potuto dichiararsi l’improcedibilità del ricorso di prime cure: facendosi questione di un’impugnazione avverso una disciplina ancora efficace per la regolazione dei rapporti sorti sotto la sua vigenza, quali sono le procedure concessorie relative alle annualità 2016 e 2017 rilevanti nell’odierno giudizio, il ricorrente avrebbe potuto ancora trarre un’utilità concreta dall’accoglimento della propria impugnazione.
3. Ciò precisato, è possibile soffermarsi sul merito del ricorso in appello.
4. L’appellante principale, dopo avere svolto una breve premessa volta ad esplicitare il pensiero “metagiuridico” alla base dell’appello – con considerazioni, per propria natura, inidonee ad essere delibate in sede giurisdizionale, non discorrendosi di specifiche censure alle rationes decidendi alla base della sentenza gravata, le uniche esaminabili in un giudizio di appello – con il primo motivo di impugnazione ha censurato la sentenza di prime cure, nella parte in cui il Tar, da un lato, ha escluso dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 163, L. n. 208/2005 e dell’art. 4 bis D.L. n. 91/18 cit., dall’altro, ha ravvisato la non manifesta irragionevolezza dei criteri dettati in sede regolamentare.
In particolare, secondo la prospettazione attorea:
– l’illegittimità costituzionale della normativa primaria, attributiva del potere regolamentare esercitato con l’emanazione del DPR n. 146/17 (a sua volta, costituente, la base normativa degli atti amministrativi relativi alla concessione dei contributi per cui è causa), dovrebbe desumersi dalla violazione degli artt. 81, 97, comma 1, e 117 Cost., come modificati dalla L. cost. n. 1 del 2012, da intendere alla luce del criterio dettato dalla L. n. 243/2012 – che vieta ogni norma che abbia rilievo locale – rilevante ai fini della redazione della legge di bilancio, a prescindere dalle conseguenze generate dall’introduzione di una tale tipologia di disposizioni;
– il Tar avrebbe omesso di pronunciare sulla costituzionalità dell’art. 4 bis D.L. n. 91/18 cit., limitandosi a statuire sull’efficacia intertemporale della relativa disposizione, ritenuta inoperante per le annualità anteriori al 2019;
– il DPR n. 146 del 2017 sarebbe inficiato da un vizio di eccesso di delega ex art. 76 e 77 Cost. e dalla violazione dell’art. 17, commi 2 e 3, L. n. 400/88, in quanto:
a) da un lato, i criteri direttivi sarebbero generici, come pure comprovato dai fatti dedotti nei “nostri ricorsi” e nelle “nostre difese” (pag. 12 ricorso in appello);
b) il limite delle prime 100 posizioni, beneficiarie del 95% del finanziamento, e l’incremento del parametro Auditel dal 17% al 30% (transitato da limitazione nel calcolo del punteggio a semplice limitazione della distribuzione delle risorse) non sarebbero stati sottoposti alla previa valutazione del Consiglio di Stato in sede consultiva, in violazione dell’art. 17, comma 2, L. n. 400/98;
– lo stesso limite delle prime 100 posizioni, oltre a non essere stato argomentato in alcun atto della consultazione al Consiglio di Stato, sarebbe in contrasto con il criterio regionale di ripartizione e con il principio del pluralismo, determinando squilibri socio-economici, non consentiti dalla delega, come del resto dimostrato dall’evoluzione del mercato, attestante il mancato conseguimento degli obiettivi assegnati dal legislatore (in ragione, tra l’altro, della progressiva riduzione degli operatori partecipanti alle procedure concessorie); in particolare, “A tutto ciò concedere … le risorse avrebbero dovuto essere distribuite a tutti gli ammessi in base al rapporto delle risorse con i punteggi conseguiti da ciascuno e non invece secondo la percentuale del 95% ai primi 100 contro il 5% agli altri” (pag. 16 ricorso in appello);
– le differenze demografiche tra le varie regioni, pure apprezzate ai fini dell’ammissione alla procedura, non sarebbero state prese in esame per la formazione del punteggio, emergendo, per l’effetto, contesti regionali senza finanziamenti proporzionati alla rispettiva popolazione alla stregua delle risultanze delle graduatorie nelle more approvate dal Ministero;
– il parametro dell’Auditel e dei dati di ascolto, parimenti, sarebbe illegittimo, in quanto non previamente conoscibile dagli operatori (non potendo argomentarsi diversamente sulla base delle linee guida, in quanto atti non vincolanti e, comunque, fondati su previsioni diverse da quelle deliberate in sede decisoria).
5. Per esigenze di connessione, stante l’opportunità di una trattazione unitaria di tutte le censure riferite alla legittimità del nuovo impianto regolatorio introdotto in sede regolamentare, il primo motivo di appello può essere esaminato congiuntamente al secondo motivo, con cui l’appellante ha dedotto:
– la violazione della L. cost. n. 1 del 2012 – di cui la L. n. 234/2012 costituirebbe l’attuazione –, in specie in relazione alla località/settorialità, della normazione successiva, con la conseguenza che “Non è … conforme al dettato costituzionale la “nazionalizzazione” che si realizza surrettiziamente con norme regolamentari viziate” (pag. 20 ricorso in appello);
– l’illegittimità della graduatoria nazionale, stante la diversità del tessuto socio economico delle Regioni e, comunque, in ragione della destinazione del finanziamento pubblico all’emittenza televisiva locale, pure tenuto conto degli effetti distorsivi suscettibili di derivare dalla possibilità per le emittenti televisive di presentare singole domande per ogni Regione in cui operano e per ogni marchio di cui sono titolari;
– l’illegittimità del criterio Auditel, stante la carenza di terzietà e indipendenza dell’Auditel per quanto attinente alle TV locali/regionali; si sarebbe, inoltre, in presenza di un criterio che, pure rilevante ai fini della determinazione della graduatoria generale, sarebbe illegittimamente computato in valore assoluto (e non percentuale), risulterebbe inidoneo a misurare la qualità della programmazione e sarebbe stato oggetto di modifiche introdotte solo in fase decisoria, in maniera immotivata e inspiegabile; al riguardo avrebbe dovuto essere, quanto meno, introdotta una fase transitoria;
– la violazione dei principi concorrenziali, venendo riconosciuto all’Auditel un monopolio, in quanto ogni emittente televisiva sarebbe obbligata a contrarre con l’Auditel, in violazione dell’art. 117 TFUE, emergendo, peraltro, un operatore monopolista in conflitto di interessi, con conseguente valorizzazione di servizi a minor costo per i soci maggioritari, in condizione di ammortizzare i costi dell’Auditel con l’incremento delle entrate derivanti dai nuovi contraenti non associati; la coniugazione del monopolio Auditel a compagine oligopolistica con la graduatoria nazionale configurerebbe, inoltre, un’ipotesi di illegittimi aiuti di Stato; la presenza di contributi regionali diversificati (in taluni casi pure non previsti) produrrebbe un effetto concorrenziale distorsivo a fronte di una graduatoria nazionale; al pari dell’effetto anticoncorrenziale prodotto dalla possibilità di cumulo dei contributi in capo alla stessa emittente operante in più regioni; tutti profili critici, pure segnalati dal Consiglio di Stato in sede consultiva e dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, non presi in considerazione della definizione del quadro regolatorio in contestazione.
6. Le censure svolte dall’appellante investono, da un lato, la fonte primaria, attributiva del potere regolamentare, ritenuta incostituzionale sotto plurimi profili; dall’altro, la fonte secondaria, incentrata (secondo la prospettazione attorea) su criteri illegittimi.
7. Prima di soffermarsi sui singoli motivi di doglianza, giova ricostruire il quadro normativo di riferimento, per come delineato dall’art. 1, comma 163, L. 28 dicembre 2015, n. 208 e dal DPR 23 agosto 2017, n. 146.
Ai sensi dell’art. 1, comma 163, L. n. 208/2015 – nella formulazione (ratione temporis applicabile nella specie) anteriore alle modifiche apportate dal L. 30 dicembre 2020, n. 178 – “Con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stabiliti i criteri di riparto tra i soggetti beneficiari e le procedure di erogazione delle risorse del Fondo di cui alla lettera b) del comma 160, da assegnare in favore delle emittenti radiofoniche e televisive locali per la realizzazione di obiettivi di pubblico interesse, quali la promozione del pluralismo dell’informazione, il sostegno dell’occupazione nel settore, il miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e l’incentivazione dell’uso di tecnologie innovative”.
In attuazione di tale disposizione, è stato emanato il DPR n. 146/2017, con cui sono stati definiti i criteri di riparto e le procedure di erogazione delle risorse del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione in favore delle emittenti televisive e radiofoniche locali.
Come rilevato da questo Consiglio in sede consultiva (parere n. 1228 del 2017), il regolamento in esame intendeva superare le criticità emerse dall’attuazione della disciplina previgente (D.M. n. 292 del 2004), che prevedeva:
– graduatorie su base regionale formate dai comitati regionali per le comunicazioni;
– l’attribuzione dei contributi sulla base della media dei fatturati realizzati nel triennio precedente e del personale dipendente applicato allo svolgimento dell’attività televisiva;
– la riserva della contribuzione alle emittenti collocate ai primi posti della graduatoria, nei limiti del trentasette per cento dei graduati, arrotondato all’unità superiore.
In particolare, la nuova disciplina mirava ad evitare una eccessiva parcellizzazione “a pioggia” del beneficio economico, premiando selettivamente, sulla base di criteri di efficienza e di seria organizzazione d’impresa, i soggetti che investono nell’attività editoriale di qualità, anche mediante l’impiego di dipendenti e giornalisti e l’utilizzo di tecnologie innovative, ed a scoraggiare invece la mera occupazione di spazio frequenziale.
Come emergente dall’articolato normativo, per quanto di maggiore interesse ai fini dell’odierno giudizio, il Governo ha inteso raggiungere tali obiettivi attraverso:
– la semplificazione e l’efficientamento delle procedure di individuazione dei beneficiari dei contributi, attraverso l’introduzione di una graduatoria unica a livello nazionale, sulla base di una procedura istruttoria di esame delle domande condotta dal Ministero dello Sviluppo Economico (per brevità, anche MISE), con l’eliminazione delle precedenti procedure che prevedevano l’istruttoria sulle domande dei Comitati Regionali per le Comunicazioni (Co.Re.Com), la redazione e approvazione di graduatorie su base regionale e un successivo decreto ministeriale di riparto delle risorse tra le regioni (art. 5);
– la semplificazione della procedura, attraverso anche la dematerializzazione dei documenti e l’informatizzazione dell’iter procedurale (art. 5, comma 2).
– la riduzione dei tempi dell’iter procedurale, con l’eliminazione della necessità di dover acquisire documentazione da altre pubbliche amministrazioni e l’assegnazione al solo MISE dell’esame istruttorio delle domande, della predisposizione delle graduatorie dei soggetti ammessi e della conseguente liquidazione dei contributi (art. 5);
– la previsione di una selezione delle domande sulla base di criteri, riferiti: a) al personale dipendente -in specie, al numero medio di dipendenti e di giornalisti dipendenti (professionisti, pubblicisti e praticanti) effettivamente applicati all’attività di fornitore di servizi media audiovisivi per la regione e il marchio/ palinsesto oggetto della domanda-; b) alla media ponderata dell’indice di ascolto medio giornaliero basato sui dati del biennio precedente e del numero dei contatti netti giornalieri mediati sui dati del biennio precedente; nonché c) al totale dei costi sostenuti nell’anno precedente per spese in tecnologie innovative (art. 6).
In tale modo, si è intesa garantire la concessione dei contributi pubblici in favore di quelle aziende che fanno realmente impresa, promuovendo progetti di informazione e di comunicazione delle realtà locali.
Il nuovo regolamento ha stabilito, inoltre, fra i requisiti che devono essere posseduti dai richiedenti, limitazioni alle televendite e la presenza di spazi destinati all’informazione.
In particolare, le emittenti televisive, per poter accedere ai contributi, ai sensi dell’art. 4, comma 1, DPR n. 146/17 devono:
– aderire al “Codice di autoregolamentazione in materia di televendite” e al “Codice di autoregolamentazione sulla tutela dei minori in TV”;
– a partire dalla domanda relativa all’anno 2019, avere trasmesso, per i marchi/palinsesti per i quali viene presentata la domanda, nell’anno solare precedente a quello di sua presentazione, almeno due edizioni giornaliere di telegiornali con valenza locale nella fascia oraria 7 – 23.
Infine, la disciplina in commento prevede una preliminare ripartizione delle risorse annualmente disponibili tra due categorie di operatori, disponendosi l’assegnazione del 95 per centro delle risorse ai primi cento classificati e il 5 per cento ai concorrenti che seguono in graduatoria (art. 6, comma 2).
8. Alla stregua del quadro normativo di riferimento, è possibile scrutinare le singole censure attoree precisando al contempo che, in ragione dell’effetto devolutivo proprio dell’appello, l’omessa pronuncia ovvero la contraddittorietà o l’erroneità della motivazione giudiziale non determinano l’annullamento con rinvio della sentenza gravata (non ricorrendo alcuna delle fattispecie di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a.), né comportano la riforma della pronuncia di prime cure, ammissibile soltanto ove si giunga ad un diverso esito della controversia.
Pure di fronte ad una omessa pronuncia ovvero ad una motivazione contraddittoria o erronea, occorre che il giudice ad quem verifichi se il contenuto dispositivo della decisione assunta dal Tar – nella specie di rigetto del ricorso – sia comunque corretto.
9. In primo luogo, devono essere disattese le doglianze riferite all’asserita incostituzionalità dell’art. 1, comma 163, L. n. 208/2015.
9.1 La fonte primaria non risulta, infatti, violativa degli artt. 81, 97, comma 1, e 117 Cost., come modificati dalla L. cost. n. 1 del 2012, non influendo sui principii di equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio e di sostenibilità del debito pubblico.
L’art. 1, comma 163 cit., infatti, non determina nuovi o maggiori oneri, bensì si limita ad individuare gli obiettivi da conseguire nella definizione dei criteri di riparto e delle procedure da osservare nella erogazione delle risorse del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, la cui provvista, tuttavia, non è definita dalla norma in esame.
Né la parte ricorrente specifica quali sia l’indebitamento generato dalla disposizione di cui si eccepisce l’incostituzionalità o, comunque, quali siano le spese dalla stessa determinate, carenti della prescritta copertura o finanziariamente insostenibili, decise in violazione dei predetti principi sottesi alla L. cost. n. 1 del 2012.
Per le stesse ragioni, deve ritenersi manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale articolata sulla base della L. n. 243 del 2012.
Pur trattandosi di una legge “rinforzata” in ragione della maggioranza parlamentare richiesta per la sua approvazione, la L. n. 243/2012 ha comunque il rango di legge ordinaria e in quanto tale trova la sua fonte di legittimazione – ed insieme i suoi limiti – nella legge cost. n. 1 del 2012 di cui detta la disciplina attuativa (Corte Costituzionale, 10 aprile 2014, n. 88): pertanto, tale atto normativo potrebbe essere apprezzato nell’ambito di un giudizio di legittimità costituzionale nella sola misura in cui esprimesse specifiche disposizioni attuative dei principi generali posti dagli artt. 81, 97 e 117 Cost., di modo che la violazione delle prime si traducesse nella violazione dei secondi (cfr. Corte cost., 14 febbraio 2019, n. 18, secondo cui i precetti espressi negli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., aventi caratteri di principi generali, sono anche inverati da specifiche disposizioni normative primarie che disciplinano – a regime – la gestione dei disavanzi pubblici, recate anche dalla L. n. 243/2012).
Di conseguenza, per quanto di maggiore interesse nell’odierno giudizio, anche la previsione di cui all’art. 15 L. n. 243 del 2012 -che, nel regolare il contenuto della prima sezione della legge di bilancio, vieta norme di delega, di carattere ordinamentale o organizzatorio, ovvero interventi di natura localistica o microsettoriale- deve, pur sempre, essere intesa alla luce dei principii di sostenibilità del debito pubblico e di equilibrio tra entrate e spese del bilancio, di cui costituisce attuazione.
In particolare, dall’art. 15 L. n. 243 cit. sembra possibile desumere il divieto di inserire, nell’ambito della prima sezione della legge di bilancio, disposizioni che per il loro contenuto siano suscettibili di determinare spese ancora non esattamente determinate (segnatamente, le norme di delega, di carattere ordinamentale o organizzativo) ovvero spese disorganiche, tali da pregiudicare l’impianto programmatico – scandito su un periodo triennale – alla base della legge di bilancio (interventi di natura localistica o microsettoriale), determinando in tale modo una crescita incontrollata della spesa pubblica, in violazione dei principi posti dagli artt. 81, 97 e 117 Cost.
Nel caso di specie, tuttavia, come osservato, l’art, 1, comma 163, cit. non importava nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (come confermato dalla relazione tecnica sub doc. 4 produzione Auditel), non influendo sullo stanziamento del fondo de quo, ma limitandosi a definire gli obiettivi da conseguire nella regolazione dei criteri e delle procedure di erogazione di finanziamenti pubblici autorizzati da altre disposizioni normative.
In conclusione, in ragione dell’inidoneità dell’art. 1, comma 163, cit., a produrre nuove o maggiori oneri (e, tantomeno, oneri non puntualmente determinabili o disorganici), deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale posta dall’appellante in relazione agli artt. 81, 97, comma 1, e 117 Cost., come modificati dalla L. cost. n. 1 del 2012, alla luce dei criteri dettati dalla L. n. 243/2012.
9.2 Risulta manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale riferita alla genericità dei criteri direttivi posti dall’art. 1, comma 163, cit.
Come precisato dalla Corte costituzionale (tra gli altri, n. 88 del 1989 e n. 279 del 2012), la riserva di legge di cui all’art. 97 Cost. assume natura relativa, non escludendo la potestà di disciplinare con norme regolamentari, di carattere integrativo e sussidiario, l’organizzazione ed il funzionamento dei pubblici uffici. Nell’ambito di questi limiti i regolamenti traggono la propria legittimazione dalla esistenza di norme primarie idonee a concretamente e sufficientemente delimitarne l’esercizio.
Nel caso di specie le previsioni dell’art. 1, comma 163 cit. sono sufficientemente precise, consentendo di indirizzare l’esercizio del potere regolamentare: non si è in presenza di una delega regolamentare in bianco, ma di una puntuale definizione dell’ambito di intervento della fonte secondaria, con la previsione di limiti sostanziali e procedurali da osservare, a pena di illegittimità, nella definizione della disciplina secondaria.
In particolare, l’art. 1, comma 163, individua:
– i soggetti incisi dalla normativa secondaria (emittenti radiofoniche e televisive locali);
– delimita la materia su cui il Governo è abilitato ad intervenire in via regolamentare (i criteri di riparto tra i soggetti beneficiari e le procedure di erogazione delle risorse del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione);
– definisce gli obiettivi che devono essere perseguiti (la promozione del pluralismo dell’informazione, il sostegno dell’occupazione nel settore, il miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e l’incentivazione dell’uso di tecnologie innovative);
– specifica l’iter procedurale da osservare (emanazione di un regolamento ex art. 17, comma 2, L. n. 400/88, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze);
– rinvia alla dotazione del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, prevista da altre disposizioni primarie.
In tale modo, è stata assicurata la legalità procedurale e sostanziale, da un lato, evitandosi che il precetto normativo fosse il frutto di una scelta libera e svincolata dell’esecutivo, dall’altro, conformandosi il potere regolamentare, esercitabile soltanto per definire le modalità di concessione di contributi già previsti in via primaria, attraverso l’introduzione di regole procedurali e criteri selettivi funzionali al conseguimento degli obiettivi parimenti dettati dalla disciplina legislativa; il che permette di ritenere rispettata la riserva di legge relativa in materia di organizzazione e funzionamento dei pubblici uffici.
Né potrebbe desumersi la genericità dei criteri direttivi alla luce di quanto dedotto nei “nostri ricorsi” e nelle “nostre difese” (pag. 12 ricorso in appello), essendosi in presenza di un rinvio indeterminato alle difese di prime cure, inidoneo ad introdurre specifiche censure esaminabili in appello.
Non configurando l’appello un novum iudicium ma una revisio prioris istantiae, il thema decidendum su cui è chiamato a statuire questo Consiglio è infatti definito, anziché dal ricorso dinnanzi al Tar, dal ricorso in appello: la parte appellante è, dunque, onerata a dedurre specificatamente i fatti costitutivi delle domande proposte in grado di appello, sia quale specifica critica delle sfavorevoli statuizioni rese dal primo giudice, sia mediante un’espressa riproposizione delle domande non esaminate in primo grado.
Per l’effetto, il rinvio indeterminato agli atti di primo grado o la mera trascrizione delle difese svolte dinnanzi al Tar, a fronte di una sentenza che ha statuito sulle doglianze attoree rigettandole (come nella specie), non è utilmente apprezzabile in sede di gravame, non essendo idonea ad introdurre specifiche censure su cui questo Consiglio di Stato è abilitato a statuire.
9.3 Deve ritenersi manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale incentrata sull’irragionevolezza della disciplina primaria.
Secondo quanto precisato dalla giurisprudenza costituzionale, è possibile desumere “dall’art. 3 Cost. un canone di “razionalità” della legge svincolato da una normativa di raffronto, rintracciato nell’esigenza di conformità dell’ordinamento a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica (sentenza n. 87 del 2012). Il principio di ragionevolezza è dunque leso quando si accerti l’esistenza di una irrazionalità intra legem, intesa come “contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata” (sentenza n. 416 del 2000). Tuttavia, “non ogni incoerenza o imprecisione di una normativa può venire in questione ai fini dello scrutinio di costituzionalità” (sentenza n. 434 del 2002), consistendo il giudizio di ragionevolezza in un “apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la “causa” normativa che la deve assistere” (sentenze n. 89 del 1996 e n. 245 del 2007) che, “quando è disgiunto dal riferimento ad un tertium comparationis, può trovare ingresso solo se l’irrazionalità o iniquità delle conseguenze della norma sia manifesta e irrefutabile” (sentenza n. 46 del 1993)” (Corte costituzionale, 13 aprile 2017, n. 86).
Il sindacato di ragionevolezza tende, dunque, a valutare la giustificazione sottesa alla disciplina in esame, onde verificare sia la coerenza tra la valutazione compiuta e la decisione assunta, sia la coerenza rispetto a situazioni comparabili, tenendo conto del bene giuridico tutelato, della sua meritevolezza e della sua idoneità a prevalere sul diverso bene giuridico eventualmente limitato, alla stregua di un giudizio bilanciamento tra contrapposti interessi da svolgere in base alla gerarchia di valori espressa dall’ordinamento.
Avuto riguardo al caso di specie, non emergono dalle deduzioni attoree specifici elementi da cui poter desumere un’irragionevolezza della decisione legislativa di vincolare i criteri selettivi e le procedure concessorie dei contributi pubblici de quibus al rispetto degli obiettivi di pubblico interesse, quali la promozione del pluralismo dell’informazione, il sostegno dell’occupazione nel settore, il miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e l’incentivazione dell’uso di tecnologie innovative.
Trattasi, infatti, di obiettivi, da un lato, coerenti con la decisione di agevolare l’attività delle emittenti televisive locali (per quanto di interesse nell’odierno giudizio), in specie degli operatori che investano effettivamente nella relativa attività economica, producendo un servizio di qualità in favore dell’utenza; dall’altro, armoniosi rispetto ad altri valori costituzionali rilevanti in materia, quali la tutela del lavoro e il pluralismo informativo.
Pertanto, non si ravvisa alcun profilo di irragionevolezza nella decisione legislativa sottesa all’art. 1, comma 163 cit. suscettibile di fare emergere dubbi di legittimità costituzionale della disciplina in commento
9.4 Infine, non può essere accolta neppure la censura riferita all’omessa pronuncia sulla questione di costituzionalità dell’art. 4 bis D.L. n. 91 del 2018 conv. con L. n. 108/18.
Il Tar, infatti, lungi dall’incorrere nel vizio di omessa pronuncia, ha espressamente preso posizione sul tema, reputando la relativa questione di legittimità costituzionale irrilevante ai fini del decidere, in quanto non idonea a condizionare l’esito della controversia.
Come emergente dalla sentenza gravata, il Tar ha dato atto che: “la disposizione incisa “ex lege” si riferisce esclusivamente all’applicazione delle disposizioni del d.P.R. per l’anno 2019, in quanto l’art. 4-bis del “Milleproroghe” è volto a disciplinare, con disposizione a carattere transitorio, annualità diversa e successiva a quella per cui è causa e, dunque, non si applica “ratione temporis” alla fattispecie dedotta in giudizio che concerne l’annualità 2016”, pure precisando che “L’esegesi che precede appare essere, peraltro, conforme al principio dell’interpretazione costituzionalmente orientata, ponendo, altrimenti, delle oggettive criticità un intervento di legificazione di norme regolamentari, incidente sui criteri di valutazione delle emittenti in concorso per l’anno 2016, entrato in vigore a graduatoria già approvata, dopo l’indicazione puntuale della generalità dei beneficiari e degli importi da ciascuno conseguiti, mentre erano pendenti vari ricorsi giurisdizionali presso questo TAR avverso la norma regolamentare e la graduatoria che era scaturita dalla applicazione di essa”.
Ne deriva che la sentenza gravata contiene una specifica pronuncia sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis cit., esaminata dal Tar e ritenuta irrilevante perché idonea ad incidere su un’annualità diversa da quella per cui è controversia.
L’omessa pronuncia è ravvisabile soltanto nelle ipotesi in cui una data questione non sia stata definita, nel rito o nel merito, dal giudice procedente ancorché posta dalla parte nei propri atti processuali: una statuizione di rito, di irrilevanza della questione, non integra, dunque, un vizio di omessa pronuncia, dando luogo al più ad una (supposta) erronea pronuncia, comunque resa sul punto.
In definitiva, ferme le considerazioni già svolte in ordine alla legificazione della disciplina regolamentare, si osserva che la parte appellante, insistendo sull’assenza di uno scrutinio di merito della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis cit.:
– contesta un vizio di omessa pronuncia, invero inesistente;
– omette di specificare le ragioni per cui la statuizione di prime cure in ordine alla limitata efficacia temporale dello ius superveniens fosse erronea;
– in ogni caso, svolge censure contro un capo decisorio a sé favorevole, avendo il Tar escluso che l’art. 4 bis cit. potesse essere invocato contro la parte ricorrente, non incisa nella propria sfera giuridica dalla disciplina primaria sopravvenuta in pendenza di giudizio, il che manifesta pure una carenza di interesse della società XXX a criticare un capo decisorio per la stessa non lesivo.
Deve, dunque, disattendersi anche l’eccezione di incostituzionalità opposta dall’appellante in relazione all’art. 4 bis D.L. n. 91 del 2018 conv. con L. n. 108/18.
10. Definite le questioni di legittimità della disciplina primaria, è possibile soffermarsi sulle censure attoree indirizzate contro la disciplina regolamentare, sotto plurimi profili ritenuta incompatibile con il quadro normativo di riferimento, ivi compresi gli obiettivi posti con l’art. 1, comma 163, L. n. 208/15.
Al riguardo, un primo ordine di contestazioni riguarda il criterio selettivo dell’indice di ascolto, reputato illegittimo in quanto:
– non previamente conoscibile dagli operatori, tenuto conto, pure, dell’inidoneità delle linee guida del 2016 a conformare l’azione degli operatori di mercato, sia per la natura giuridica non vincolante del relativo atto, sia per il riferimento ad una regolazione differente rispetto a quella dettata dal regolamento una volta emanato;
– promanante da un soggetto privo dei caratteri di terzietà e indipendenza per quanto attinente alle TV locali/regionali;
– incentrato su dati inattendibili e, comunque, privi di ogni riferimento alla qualità della programmazione;
– computato in termini assoluti e non percentuali;
– modificato soltanto in sede decisoria in maniera immotivata, senza essere previamente sottoposto al parere di questo Consiglio di Stato.
11. In primo luogo, deve essere negata la violazione del principio del legittimo affidamento; ciò, a prescindere dalla data di adozione o dalla natura giuridica delle linee guida ministeriali, pure richiamate nella sentenza di prime cure per escludere l’illegittimità del parametro dell’indice di ascolto.
11.1 Come precisato dalla giurisprudenza amministrativa, “il principio dell’affidamento trova la sua giustificazione nella circostanza che il privato possa confidare nella stabilità di un atto amministrativo, quando abbia ragione di ritenere che l’atto sia legittimo e comunque abbia prodotto i suoi effetti per lungo tempo, senza che sia intervenuto alcun “rilievo” da parte dell’amministrazione che lo ha emanato” (CGA, 23 maggio 2017, n. 243).
Affinché possa riscontrarsi una posizione di legittimo affidamento, occorre, dunque, che la parte privata sia stata beneficiata da un pregresso atto amministrativo, costitutivo di una situazione di vantaggio acquisita in buona fede, consolidatasi nel proprio patrimonio giuridico per via del decorso di un apprezzabile periodo temporale.
Anche in ambito unionale è stato precisato che il diritto di avvalersi del principio di tutela del legittimo affidamento si estende a ogni individuo in capo al quale un’autorità amministrativa nazionale abbia fatto sorgere fondate speranze a causa di assicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti autorizzate e affidabili, che essa gli avrebbe fornito (Corte di Giustizia, 31 marzo 2022, in causa C 195-21, punto 65).
Peraltro, qualora un operatore economico prudente e avveduto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, esso non può invocare il legittimo affidamento nel caso in cui il provvedimento venga adottato: gli operatori economici non possono neppure prestare legittimamente affidamento sul mantenimento di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali (Corte di Giustizia, 15 aprile 2021, in cause C 798/18 e C-799/18, punto 42).
Per l’effetto, posto che l’Amministrazione ha il potere di modificare nel tempo i criteri valutativi applicabili per la concessione dei contributi pubblici (in applicazione del principio di inesauribilità del pubblico potere), l’introduzione di nuovi parametri, a modifica di quelli precedentemente applicati, non potrebbe ledere un affidamento legittimo qualora, da un lato, l’Amministrazione non abbia previamente assunto atti suscettibili di ingenerare negli operatori di mercato un dato affidamento sul contenuto della regolazione emananda, dall’altro, i criteri in concreto prescelti, pure se riferiti a requisiti maturati nel periodo anteriore alla loro introduzione, non risultino del tutto imprevedibili o irragionevoli, non essendo avulsi dal contesto regolatorio di riferimento, né incoerenti rispetto alle finalità sottese alla regolazione all’uopo da introdurre.
11.2 Nel caso di specie, oltre a difettare rassicurazioni dell’Amministrazione circa la mancata adozione di un criterio selettivo relativo ai dati di ascolto, emerge un parametro già contemplato dalla normativa di settore, normalmente impiegato dagli operatori di mercato nello svolgimento della propria attività di impresa -in quanto correlato ai ricavi dalla vendita degli spazi pubblicitari-, nonché idoneo a misurare il gradimento riscosso dalla programmazione dell’emittente presso il pubblico degli utenti; il che manifesta la prevedibilità e la ragionevolezza del criterio selettivo, tale da impedire la violazione del principio del legittimo affidamento.
11.3 In particolare, in punto di prevedibilità dell’introduzione di un tale criterio selettivo, l’indice di ascolto risultava già richiamato:
– dall’art. art. 6, comma 9-quinquies, D.L. 23/12/2013, n. 145 conv. dalla L. n. 9/14 (inserito dall’art. 1, comma 147, lett. d), L. 23 dicembre 2014, n. 190, a decorrere dal 1° gennaio 2015), in forza del quale, al fine di individuare gli operatori di rete in condizione di utilizzare ulteriori frequenze resesi disponibili, il Ministero dello sviluppo economico avrebbe dovuto predisporre, per ciascuna regione e per le province autonome di Trento e di Bolzano, una graduatoria dei soggetti legittimamente abilitati quali fornitori di servizi di media audiovisivi in ambito locale, applicando, per ciascun marchio oggetto di autorizzazione, (tra gli altri) apposito criterio riferito alla “media annua dell’ascolto medio del giorno medio mensile rilevati dalla società Auditel nella singola regione o provincia autonoma”;
– dall’art. 6, comma 5, All. A alla delibera AGCOM 21/03/2013, n. 237/13/Cons (accessibile sul sito istituzionale dell’Autorità), in forza del quale, ai fini dell’attribuzione delle numerazioni dei canali digitali terrestri a diffusione nazionale in chiaro, avrebbe dovuto tenersi conto, in ciascun sottoblocco, della data di autorizzazione del programma in tecnica digitale terrestre “e, ove esistenti, degli indici di ascolto rilevati dalla società Auditel”.
Ne deriva che il parametro degli indici di ascolto rilevati dalla società Auditel non costituiva una novità nell’ambito della regolazione di settore, essendo stato già preso in considerazione sia per l’utilizzo di ulteriori frequenze rese disponibili in capo ai fornitori di servizi di media audiovisivi in ambito locale, sia per la numerazione dei canali digitali terrestri.
Per l’effetto, un operatore accorto e prudente, tenuto conto dell’avvenuto utilizzo dell’indice di ascolto quale criterio selettivo per il riconoscimento di benefici in favore delle emittenti televisivi, avrebbe ben potuto prevedere l’adozione di tale criterio anche per la concessione dei contributi economici per cui è causa.
11.4 L’indice di ascolto risulta, inoltre, ragionevole, in quanto coerente con l’esigenza di selezionare operatori che, investendo effettivamente nella propria attività di impresa, svolgono un’attività economicamente sostenibile, in quanto idonea a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi (predicato del carattere imprenditoriale dell’attività svolta – Cass. civ. Sez. III, 19 giugno 2008, n. 16612).
Come correttamente rilevato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Allegato A alla delibera n. 236/17/CONS – doc. 20 produzione Auditel), le imprese televisive operano sul mercato della raccolta pubblicitaria per vendere agli inserzionisti i propri spazi pubblicitari.
Una delle variabili che concorrono alla collocazione di spazi pubblicitari sul mercato è costituita proprio dall’audience conseguita dall’emittente attraverso la propria programmazione, con la conseguenza che la rilevazione dei contatti dei mezzi di comunicazione nasce dalla necessità degli operatori e degli investitori di quantificare l’effettivo numero di consumatori raggiunti dai mezzi di comunicazione: “i dati e le informazioni sulle audience sono indispensabili al corretto funzionamento e allo svolgimento delle negoziazioni finalizzate alla compravendita di pubblicità. L’intero sistema pubblicitario si avvale, infatti, dei servizi di misurazione delle audience sui diversi mezzi che incide, quindi, in modo determinante sulla valorizzazione delle inserzioni di pubblicità, nonché sulla valutazione del ritorno sugli investimenti effettuati e sulla pianificazione e ottimizzazione degli investimenti futuri” (Allegato A alla delibera n. 236/17/CONS – pag. 5).
Peraltro, è stato pure rilevato che “nel corso degli ultimi anni la vendita di spazi pubblicitari all’interno dei programmi televisivi abbia rappresentato la principale fonte di ricavo nel settore televisivo (nel 2015 pari al 41,5% delle risorse complessive), pur essendo diminuita di circa un quarto del proprio valore rispetto al 2010” , con la precisazione che “nell’ultimo anno, il trend negativo che aveva caratterizzato l’andamento della raccolta pubblicitaria televisiva nei periodi precedenti abbia avuto un’inversione di tendenza” (pagg. 81 e 82, Allegato A alla delibera n. 236/17/CONS; cfr. fig. 7 , pag. 82, dedicata alla ripartizione dei ricavi complessivi del settore televisivo, in cui, accanto alla pubblicità, sono previsti soltanto le offerte televisive a pagamento e i fondi pubblici).
Per un’emittente televisiva, pertanto, l’indice di ascolto non può essere considerato un elemento estraneo all’attività svolta, influendo sui ricavi derivanti dalla raccolta pubblicitaria, costituenti – di regola – una posta economica rilevante per l’operatore di mercato.
Ne discende la coerenza dell’indice di ascolto rispetto alla tipologia di attività sovvenzionata con la pubblica contribuzione per cui è causa.
11.5 Il criterio in esame, infine, consente anche di misurare il gradimento della programmazione dell’emittente presso il pubblico, misurando i contatti ottenuti da ciascun programma.
Emerge, dunque, un elemento di valutazione del tutto ragionevole, in quanto coerente con l’esigenza di agevolare l’attività di emittenti televisive che non occupino mero spazio frequenziale, bensì forniscano un servizio apprezzato dall’utenza, come dimostrato dal seguito in concreto misurato.
11.6 In definitiva, non può ritenersi lesiva del principio di legittimo affidamento la previsione, tra i criteri selettivi da applicare per la concessione di pubbliche elargizioni, di un parametro già impiegato in passato dalla normativa di settore (riferita all’attività di emittenza televisiva), coerente con la struttura dei ricavi di un emittente che determini in maniera autonoma e razionale la propria condotta sul mercato, nonché idoneo a misurare il successo della programmazione dell’emittente presso il pubblico degli utenti.
11.7 Né potrebbe argomentarsi diversamente rilevando che, stante la non obbligatorietà del convenzionamento con l’Auditel, talune emittenti non fossero in possesso del relativo requisito selettivo, perché non aderenti al sistema di rilevazione Auditel, con la conseguenza che un tale criterio avrebbe dovuto essere applicato soltanto pro futuro, in relazione ai dati suscettibili di misurazione successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina regolamentare.
Nella scelta dei criteri selettivi l’Amministrazione è tenuta ad individuare parametri prevedibili e conseguibili dalla generalità degli operatori di mercato, non potendo, invece, esigersi un accertamento concreto sulla effettiva pregressa disponibilità del requisito in capo a tutti gli operatori potenzialmente interessati dall’emananda disciplina.
Con riferimento all’indice di ascolto, acclarata la sua prevedibilità, non risultano dagli atti di causa elementi che facciano ritenere che si fosse in presenza di un parametro riservato ad alcune categorie di emittenti, trattandosi di un elemento utilizzabile da tutte le emittenti televisivi, specie per la collocazione dei propri spazi pubblicitari.
La scelta di non aderire al sistema di rilevazione dei dati di ascolto è, dunque, destinata ad esaurire la propria rilevanza nella sfera giuridica del singolo emittente che, pure in condizione di prevedere il futuro utilizzo del parametro de quo per la concessione di pubbliche elargizioni e pure in condizione di acquisire tale requisito, ha ritenuto di improntare diversamente la propria attività di impresa: scelta personale, certamente lecita, in assenza di un obbligo violato, ma insuscettibile di condizionare la legittimità del potere regolamentare in contestazione nell’odierno giudizio.
Per tali ragioni, l’Amministrazione non era neppure tenuta ad introdurre apposita disciplina transitoria per differire l’applicazione del criterio sui dati di ascolto, trattandosi di parametro prevedibile e ragionevole, come tale immediatamente applicabile.
Anche il suggerimento espresso da questo Consiglio di Stato nel parere n. 1563 del 2017 in ordine all’introduzione di una disciplina transitoria riguardava scelte di mera “opportunità”, da valutare dall’Amministrazione procedente, senza influire sulla legittimità della disciplina regolamentare emananda.
11.8 L’Amministrazione, infine, non avrebbe potuto neppure ammettere ulteriori sistemi di rilevazione dei dati di ascolto, in quanto, come precisato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nell’indagine conoscitiva sui sistemi di rilevazione degli indici di ascolto sui mezzi di comunicazione di massa (Allegato A alla delibera n. 236/17/CONS), l’Auditel rappresentava il “soggetto responsabile unico per la raccolta e diffusione dei dati di ascolto televisivo in Italia”, con la conseguenza che, nella valorizzazione dei dati di ascolto ai fini selettivi (scelta, come osservato, prevedibile e ragionevole), non sarebbe stato possibile prendere in considerazione dati di ascolto diversi da quelli rilevati dalla società Auditel (sulla sussistenza di una radicata presenza storica della società Auditel in posizione di monopolio sul mercato, cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3849).
12. L’appello non merita di essere condiviso neppure nella parte in cui ravvisa la carenza di terzietà e indipendenza della società Auditel.
L’Auditel adotta un modello organizzativo idoneo a garantire la correttezza e la trasparenza delle rilevazioni, tale da escludere dubbi di parziarietà suscettibili di influire sull’applicazione del criterio selettivo per cui è causa.
Come emerge dall’art. 7 dello statuto dell’Auditel in atti, la società, “al fine di perseguire il mantenimento dell’equilibrio dei rapporti tra i soci, è composta da tre diversi Gruppi, tra loro omogenei, di soci”: a) gli utenti e le agenzie di pubblicità, rappresentati dai soci Upa utenti Pubblicità Associati e Assap Servizi srl; b) l’emittenza pubblica, rappresentata dal socio Rai Radiotelevisione Italiana; c) l’emittenza privata, rappresentata dai soci RTI s.p.a., La7 s.p.a. e Confindustria Radio Televisori; alla società partecipa con una quota dell’uno per cento, anche la F.I.E.G. Federazione Italiana Editori Giornali.
L’art. 10 prevede, inoltre, l’attribuzione di particolari diritti amministrativi ai singoli soci, in specie nella nomina dei consiglieri di amministrazione e dai componenti del comitato tecnico (avente competenza, ai sensi dell’art. 20, sui problemi di natura tecnico-scientifica relativi all’impostazione ed alla realizzazione delle rilevazioni, delle ricerche e della diffusione dei dati ottenuti).
L’art. 12 prevede, al riguardo, che il maggior numero di amministratori nominato dall’assemblea, rispetto ai membri spettanti ai soci, “è finalizzato a consentire l’ampliamento della rappresentatività dell’organo amministrativo della società, in ossequio alle indicazioni formulate dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni”.
La governance della società Auditel, dunque, riflette il modello cd. JIC- Joint Industry Committees, prevalentemente utilizzato a livello europeo, basato sulla ripartizione del capitale azionario delle società che realizzano le indagini, tra impresa televisiva pubblica, imprese televisive private ed investitori pubblicitari, al fine di assicurare la rappresentatività (anche nella composizione degli organi gestori dell’impresa) del relativo settore (cfr. pag. 21 Allegato A alla delibera n. 236/17/CONS).
La circostanza per cui non vi sia, nell’ambito delle composizione societaria della Auditel, un soggetto rappresentativo delle (sole) emittenti locali non consente di giungere a risultati differenti, tenuto conto che DDD, organismo rappresentativo dell’emittenza locale, come emergente dall’atto di intervento in prime cure, aderisce a EEE, a sua volta socia dell’Auditel, il che dimostra come sussista nell’ambito della compagine societaria dell’Auditel anche una rappresentanza, attraverso la EEE e delle associazioni alla stessa aderenti, delle emittenti locali.
Ciò trova, peraltro, conferma in quanto rilevato nell’allegato A alla delibera n. 236/17/CONS, in cui si dà atto che “Quanto all’emittenza locale, essa allo stato ha una sua rappresentanza, ancorché non diretta, in CdA, attraverso Confindustria RadioTV; inoltre, le TV locali sono direttamente rappresentate nel Comitato Tecnico, organo che, …, svolge un ruolo significativo all’interno della società” (pag. 97).
Non potrebbe argomentarsi diversamente in ragione della presenza di alcune emittenti locali che in concreto non hanno aderito a DDD, in quanto in subiecta materia (richiamando le considerazioni sopra svolte in merito alla legittimazione delle associazioni rappresentative) non rileva l’interesse individuale dell’emittente non associata, ma l’interesse collettivo della categoria, comunque rappresentato nella compagine societaria de qua.
In ogni caso, la presenza, tra i soci dell’Auditel, dell’associazione degli utenti, organismo super partes, nonché la sottoposizione della società Auditel alla vigilanza pubblica (attraverso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ex art. 1, comma 6, lett. b), n. 11 della legge 31 luglio 1997, n. 249) costituiscono un chiaro indice di oggettività e imparzialità dell’organismo societario.
L’odierna ricorrente, comunque, non ha fornito elementi specifici da cui potere desumere che l’Auditel non sia effettivamente imparziale, tendendo a favorire alcune emittenti in danno di altre; con conseguente infondatezza della corrispondente censura attorea anche per difetto di prova delle contestazioni all’uopo svolte.
13. Parimenti infondate devono ritenersi le censure incentrate sull’inattendibilità dei dati di ascolto rilevati dall’Auditel o sulla loro inidoneità a rilevare la qualità della programmazione delle emittenti televisive.
13.1 Con riferimento a tale ultimo aspetto, relativo alla qualità dell’informazione, deve evidenziarsi come il gradimento del pubblico, desumibile dai dati di ascolto, possa, comunque, rappresentare un indice qualitativo del servizio fornito dagli emittenti, non potendosi sostenere che, secondo l’id quod plerumque accidit, i programmi di scarsa qualità siano caratterizzati, di regola, da un numero elevato di contatti: di contro, tenuto conto delle scelte dell’utente razionale, può presumersi che un programma connotato da un gradimento elevato, come misurato dagli indici di ascolto, sia seguito in quanto idoneo a realizzare le esigenze dell’utenza, fornendo un servizio di qualità.
In ogni caso, si osserva che il conseguimento dell’obiettivo di tutela posto dall’art. 1, comma 163, L. n. 208 del 2015, relativo al miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti, deve essere valutato avuto riguardo alla complessiva disciplina dettata in sede regolamentare.
Come osservato, per poter accedere ai contributi, ai sensi dell’art. 4, comma 1, DPR n. 146/17 le emittenti televisive devono:
– aderire al “Codice di autoregolamentazione in materia di televendite” e al “Codice di autoregolamentazione sulla tutela dei minori in TV”;
– a partire dalla domanda relativa all’anno 2019, avere trasmesso, per i marchi/palinsesti per i quali presentano la domanda, nell’anno solare precedente a quello di sua presentazione, almeno due edizioni giornaliere di telegiornali con valenza locale nella fascia oraria 7 – 23.
Pertanto, la concessione di un contributo in favore di emittenti, da un lato, tenute all’osservanza di specifiche prescrizioni a garanzia della qualità della programmazione offerta – incentrate sul rispetto della disciplina di autoregolamentazione in materia di televendite e tutela dei minori, oltre che sulla trasmissione di due edizioni giornaliere di telegiornali con valenza locale in una fascia oraria caratterizzata dalla visione da parte della generalità degli utenti -, dall’altro, connotate da un apprezzabile indice di gradimento come emergente dall’indice di ascolto, consente di realizzare le esigenze di miglioramento qualitativo dei contenuti forniti.
In particolare, il criterio selettivo dei dati di ascolto trova applicazione ad operatori che, in quanto ammessi alla procedura concessoria, sono in possesso dei requisiti declinati all’art. 4 del regolamento e, dunque, si distinguono già per la qualità del servizio offerto all’emittenza, comprendente la trasmissione di programmi rispettosi dell’autoregolamentazione in materia di televendite e tutela dei minori.
Pertanto, è ragionevole, in quanto coerente con gli obiettivi di tutela posti dall’art. 1, comma 163, L. n. 208 del 2015, valorizzare l’apprezzamento – come misurato dall’indice di ascolto – che il pubblico degli utenti ha manifestato nei confronti della programmazione di qualità (rispettosa dei requisiti di ammissione alla pubblica contribuzione) offerta dalle emittenti partecipanti alla procedura concessoria.
13.2 I dati di ascolto non potrebbero neppure essere censurati per la inattendibilità o per la inidoneità a misurare i contatti riguardanti la programmazione locale.
Al riguardo, devono essere valorizzate le risultanze dell’indagine conoscitiva sui sistemi di rilevazione degli indici di ascolto sui mezzi di comunicazione di massa cit. (All. A delibera n. 236/2017/Cons), disponibili al tempo di emanazione del regolamento per cui è causa, in cui si dà atto che:
– “Il panel utilizzato da Auditel fino al 2017 risulta essere, tra i Paesi considerati, il più consistente in valore assoluto (5.760 famiglie) ed il secondo in rapporto alla popolazione, dietro alla Spagna (0,23% contro 0,29%, dato in linea con quello degli Stati Uniti). Con l’introduzione del superpanel, prevista nel corso del 2017, l’Italia dovrebbe divenire il Paese con il panel più rappresentativo, sia in valori assoluti che percentuali, tra i maggiori Paesi al mondo (sebbene, come sarà descritto in maggiore dettaglio nel paragrafo 3.2, l’espansione del panel avverrà utilizzando dispositivi set meter e non people meter)” (pag. 66, All. A delibera n. 236/2017/Cons);
– “Auditel si occupa di rilevare e diffondere i dati di ascolto televisivo, minuto per minuto ogni giorno dell’anno, relativi a programmi, break e spot pubblicitari trasmessi dalle emittenti nazionali e locali in Italia, tramite digitale satellitare, digitale terrestre e fibra ottica, sia live sia in differita” (pag. 87);
– “I dati prodotti sono resi disponibili, a fronte di un congruo corrispettivo, a chiunque ne faccia richiesta. Usualmente, i risultati delle rilevazioni sono richiesti dalle emittenti televisive, in quanto interessate ai dati di ascolto conseguiti dai propri programmi per valutarne le performance, e dagli utilizzatori professionali, tra i quali vi sono società specializzate nell’analizzare i dati su incarico di un destinatario finale (agenzie, centri media, utenti di pubblicità, concessionarie, studi professionali, ecc.). I dati rilasciati possono essere giornalieri, settimanali, mensili o annuali” (pag. 88);
– “Il panel è attualmente costituito da 5.760 famiglie,66 corrispondenti a circa 14.700 individui, nelle cui abitazioni sono stati installati oltre 10.250 rilevatori meter GTAM. Ogni anno, circa il 20% delle famiglie appartenenti al panel viene sostituito al fine di: i) mantenere il campione aggiornato rispetto ai mutamenti nella popolazione che esso rappresenta; ii) sostituire le famiglie che non intendono più collaborare; iii) evitare fenomeni di assuefazione” (pag. 90);
– il “sistema di rilevazione sviluppato da Auditel nel corso degli anni e illustrato nel presente paragrafo sembra aver risolto le criticità evidenziate dall’Autorità nel corso della propria attività di analisi e vigilanza sui mercati della rilevazione degli ascolti” (pag. 95).
Tali rilievi, svolti dall’Autorità di vigilanza del settore, dimostrano l’attendibilità dei dati di ascolto in esame, facendosi questione di dati disponibili per gli interessati, riguardanti anche le emittenti locali, nonché misurati sulla base di un panel continuamente aggiornato ed estremamente rappresentativo, il più consistente in valore assoluto tra i Paesi considerati dall’Autorità (Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito e Spagna) e secondo in rapporto alla popolazione, dietro soltanto alla Spagna, senza tenere conto dell’introduzione programmata del superpanel che avrebbe reso l’Italia il Paese con il panel più rappresentativo, sia in valori assoluti che percentuali, tra i maggiori Paesi al mondo.
Trattasi, inoltre, di un sistema di rilevazione sottoposto ad una costante vigilanza pubblica (da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) – come reso palese anche dall’obbligo, gravante sulla società Auditel, di inviare all’Autorità “una relazione, a cadenza semestrale, che illustri nel dettaglio lo stato di avanzamento del progetto superpanel, inclusi eventuali sviluppi futuri, e di estensione delle indagini di rilevazione ai contenuti televisivi fruiti da altri schermi” (pag. 96, All. A delibera n. 236/2017/Cons) – ad ulteriore garanzia dell’attendibilità dei risultati di analisi dallo stesso prodotti.
A fronte di tali elementi, caratterizzanti il sistema di rilevazione in esame e deponenti per la sua attendibilità, non sono stati prodotti sufficienti elementi di prova contraria, con conseguente infondatezza (anche sotto tale profilo) delle censure attoree.
14. Parimenti, non può dedursi l’illegittimità della disciplina regolamentare in analisi (nella parte in cui ha previsto tra i criteri selettivi l’indice di ascolto), sostenendo che si è in presenza di valori computati in termini assoluti e non percentuali, rientrando nella discrezionalità dell’autorità governativa prevedere le modalità di formazione del punteggio ai fini della graduazione dei candidati, aspiranti alla concessione dei contributi economici de quibus.
14.1 Pure dovendosi ammettere la piena sindacabilità dei regolamenti da parte del giudice amministrativo, facendosi questione di atti amministrativi (Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 maggio 2021, n. 3475), deve riconoscersi un’ampia discrezionalità dell’autorità governativa nella definizione della disciplina ritenuta maggiormente adeguata al raggiungimento degli obiettivi di interesse generale, ferma rimanendo l’osservanza dei principi e criteri dettati dalla fonte primaria (Consiglio di Stato, sez. IV, 10 luglio 2013, n. 3688), oltre che del principio di logicità-congruità, non potendo ammettersi scelte, comunque, inficiate da manifesta illogicità e irragionevolezza, evidente sproporzionalità o travisamento dei fatti.
Tali principi e criteri non risultano essere stati nella specie disattesi.
14.2 Alla stregua del quadro regolatorio di riferimento, i dati di ascolto rilevano:
– ai sensi della tabella 1, comma 1, DPR n. 146 del 2017, per la ripartizione dell’ammontare annuo dello stanziamento destinato alle emittenti televisive;
– ai sensi della tabella 1, commi 2 e ss., e della tabella 2 al DPR n. 146 del 2017, per l’attribuzione del punteggio ai fini della formazione della graduatoria.
Difatti, sotto tale ultimo profilo, il punteggio è attribuito ai concorrenti in relazione a ciascuna delle aree indicate nella tabella 1 del DPR n. 146/17, ivi compresa, dunque, l’area relativa agli indici di ascolto: la somma dei punteggi parziali, riguardanti le singole aree valutative, dà luogo al punteggio complessivo rilevante per la collocazione in graduatoria.
Per stabilire il quantum spettante al singolo concorrente, secondo la disciplina in contestazione, per il momento prescindendo dal cd. scalino preferenziale di cui all’art. 6, comma 2, cit., occorre:
– ripartire lo stanziamento annuo complessivo nelle tre aree valutative indicate nella tabella 1 (dipendenti, dati di ascolto e spese per investimento) secondo le percentuali ivi indicate (per i dati di ascolto, 17 per cento, per gli anni 2016 e 2017, e 30 per cento, per gli anni successivi), al fine di ottenere lo stanziamento parziale, riferito a ciascuna area;
– quindi, ripartire tale valore (lo stanziamento parziale, per singola area) proporzionalmente tra i concorrenti in ragione del punteggio da ciascuno ottenuto nella singola area (in particolare, si divide lo stanziamento riferito alla singola area per il numero di punti assegnati nell’ambito dell’area a tutti i concorrenti, per ottenere il valore economico del punto unitario, da moltiplicare poi per il numero di punti ottenuti da ciascun concorrente nell’area valutativa, così da quantificare il contributo parziale spettante per l’area esaminata);
– ripetere la stessa procedura per le rimanenti aree, al fine di ottenere il contributo spettante al concorrente per ciascuna delle aree valutative;
– infine, sommare i contributi parziali (relativi a ciascuna area) per ottenere il contributo complessivo spettante al concorrente.
14.3 Tale meccanismo di calcolo, salvo quanto si dirà infra in relazione all’introduzione del cd. scalino preferenziale (al momento non esaminato), non è inficiato da manifesta irragionevolezza, né risulta violativo dei criteri direttivi impartiti dal legislatore con l’art. 1, comma 163, L. n. 208/05, che non imponevano di definire parametri di valutazione in forma percentuale anziché assoluta.
Trattasi, infatti, di disciplina che permette di valorizzare l’indice di ascolto – costituente un criterio (come osservato) prevedibile e ragionevole – sia per l’attribuzione del punteggio individuale (concorrente a formare il punteggio complessivo rilevante ai fini della graduatoria), sia per il riparto dello stanziamento economico tra le aree valutative, al fine di beneficiare le emittenti che non occupino meramente spazio frequenziali, ma riscuotano il gradimento del pubblico e possiedano la capacità di raccogliere autonomamente sul mercato (pubblicitario) i fondi da impiegare nell’attività di impresa (elementi, come osservato, condizionati dai dati di ascolto).
La necessità di computare i dati di ascolto in valore assoluto anziché percentuale, inoltre, non costituisce una decisione manifestamente irragionevole, in quanto consente di misurare l’effettivo indice di gradimento e la reale capacità dell’impresa di raccogliere finanziamenti sul mercato, permettendo, in tale modo, di graduare i concorrenti sulla base dei risultati da ciascuno in concreto conseguiti, con conseguente attribuzione di maggiori contributi alle emittenti che abbiano registrato un maggiore presenza nel territorio, anche in termini di indice di ascolto (il che risponde, del resto, alla finalità ragionevolmente perseguita di individuare un criterio “maggiormente rappresentativo della effettiva presenza dell’emittente sul territorio e della risposta dell’utenza alla programmazione proposta” – analisi di impatto della regolazione sub doc. 4 produzione Auditel) .
15. Il criterio selettivo dell’indice di ascolto, infine, non potrebbe essere censurato perché modificato soltanto in sede decisoria in maniera immotivata, senza essere previamente sottoposto al parere di questo Consiglio di Stato.
15.1 In primo luogo, si osserva che, nell’ambito del procedimento di formazione regolamentare, al pari di quanto previsto per il procedimento di formazione legislativa, la necessità di un nuovo parere del Consiglio di Stato può essere predicata a fronte di “radicali mutamenti” e non di mere “modifiche migliorative” di uno schema normativo già sottoposto a consultazione (cfr. Corte costituzionale, 3 maggio 2012, n. 111).
Con riferimento all’indice di ascolto, la variazione dell’incidenza percentuale del relativo criterio selettivo, riferita peraltro al mero riparto dello stanziamento annuale, non costituiva un radicale mutamento della disciplina positiva, non essendosi introdotto un nuovo criterio selettivo da sottoporre nuovamente all’attenzione di questo Consiglio: si faceva, piuttosto, questione di una mera modifica -di un parametro già esaminato in sede consultiva- che non alterava il complessivo impianto normativo, che continuava ad essere incentrato sulla valorizzazione dei medesimi criteri selettivi, rilevanti pure per la ripartizione dello stanziamento annuale all’uopo disponibile.
Non risultava, dunque, necessaria, a pena di illegittimità, l’acquisizione di un terzo parere del Consiglio di Stato (ulteriore ai pareri nn. 1228/17 e 1563/17).
15.2 Non potrebbe essere fondatamente censurata neppure una carenza motivazionale della scelta di variare in sede decisoria la disciplina riferita all’indice di ascolto, trovando applicazione la disciplina di cui all’art. 3 L. n. 241/90, ai sensi del quale “la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale” (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. III, 24 giugno 2021, n. 4843).
Peraltro, nella specie la motivazione delle scelte regolatorie in esame si desume anche dall’analisi di impatto della regolazione, in cui si è rappresentato che la disciplina regolamentare tendeva al miglioramento dei criteri di ripartizione delle risorse tra i diversi operatori, nell’ottica di un complessivo sostegno, su base meritocratica, del comparto dell’insieme dei fornitori di servizi radio-televisivi: “tale obiettivo è raggiunto mediante l’attribuzione dei finanziamenti secondo criteri che atti a premiare il possesso di un insieme di requisiti rispondenti all’obiettivo di migliorare la qualità dei programmi radio-televisivi, scoraggiando la mera occupazione di spazio “frequenziale”, priva di offerta di qualità con la previsione di criteri più selettivi rispetto ad emittenti marginali del settore il cui modello di business è strettamente dipendente dalle provvidenze pubbliche previste dalla normativa di settore”.
La maggiore valorizzazione dell’indice di ascolto in sede decisoria trovava, dunque, giustificazione in tale finalità emergente dagli atti del procedimento, rispondendo all’esigenza di agevolare le imprese che avessero dimostrato di essere presenti sul mercato, adottando un modello di business, incentrato pure su autonomi ricavi – quali sono quelli pubblicitari (condizionati, come osservato, dai dati di ascolto) – in tale modo non dipendendo esclusivamente dai finanziamenti pubblici.
16. Esaminate le doglianze riferite al criterio dell’indice di ascolto, occorre soffermarsi sulle ulteriori censure, riguardanti sia la violazione dei principi e delle disposizioni in materia di concorrenza, sia la formazione di una graduatoria nazionale con la previsione di uno scalino preferenziale per i primi cento classificati, destinatari del 95% dello stanziamento annuo.
17. Le doglianze relative ai profili concorrenziali sono infondate, salvo quanto si osserverà infra in merito alla previsione del cd. scalino concorrenziale.
17.1 In primo luogo, la disciplina regolamentare non ha previsto alcuna forma di monopolio in favore della società Auditel, essendosi l’autorità governativa limitata a prendere atto che la società Auditel, come osservato, costituiva il “soggetto responsabile unico per la raccolta e diffusione dei dati di ascolto televisivo in Italia” (Allegato A alla delibera n. 236/17/CONS).
Pertanto, una volta stabilita la ragionevolezza del criterio dell’indice di ascolto, non sarebbe stato possibile assumere come parametro di selezione sistemi di rilevazione diversi da quello adottato dalla società Auditel, in ragione della struttura monopolistica del mercato: circostanza preesistente alla disciplina per cui è causa, discendente da logiche di mercato, in specie dall’esigenza di assicurare un unico punto di riferimento per il mercato pubblicitario (come, anche in tale caso, emergente dall’indagine svolta dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni – all. A delibera n. 236 del 2017 cit.).
Peraltro, nessun obbligo di convenzionamento è stato imposto alle emittenti, rientrando nelle libere scelte imprenditoriali di ciascun operatore la decisione di ricorrere al servizio di rilevazione dei dati di ascolto offerto dall’Auditel: l’omesso convenzionamento non preclude neppure la partecipazione alla procedura concessoria, non costituendo un requisito di ammissione alla pubblica contribuzione.
17.2 In secondo luogo, non potrebbe emergere neppure una distorsione concorrenziale per effetto di un’asserita valorizzazione di servizi a minor costo per i soci dell’Auditel, che ammortizzerebbero i relativi oneri con l’incremento delle entrate derivanti dai nuovi contraenti non associati.
Difatti:
– da un lato, lo statuto dell’Auditel prevede che “gli utili netti risultanti dal bilancio, dedotto almeno il cinque per cento da destinare a riserva legale fino a che questa non abbia raggiunto il quinto del capitale, vengono destinati a riserva straordinaria, salvo diversa decisione dell’assemblea assunta con il consenso di tanti soci che rappresentino almeno il novanta per cento del capitale sociale” (art. 31.2), con la conseguenza che, di regola, tali utili non sono distribuiti tra i soci, salvo diversa decisione da assumere con una maggioranza particolarmente rinforzata;
– dall’altro, non risulta che partecipino direttamente all’Auditel le emittenti locali controinteressate in concorrenza con l’odierna appellante (avvenendo tale partecipazione attraverso la EEE, associazione titolare di un’autonoma soggettività giuridica), sicché non potrebbe riscontrarsi un indebito vantaggio concorrenziale per talune emittenti in danno di altre; né l’appellante ha fornito specifici elementi di prova idonei a dimostrare la circostanza contraria.
17.3 In terzo luogo, l’appellante non specifica sotto quale profilo possa ritenersi violata la disciplina sugli aiuti di stato, in relazione al monopolio detenuto dalla società Auditel.
La qualificazione come “aiuto di Stato”, ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE, presuppone che siano soddisfatte quattro condizioni, ovvero che sussista un intervento dello Stato o effettuato mediante risorse statali, che tale intervento possa incidere sugli scambi tra gli Stati membri, che esso conceda un vantaggio selettivo al suo beneficiario e che falsi o minacci di falsare la concorrenza (Corte di Giustizia, 15 maggio 2019, in causa C-706/17, AB «Achema», punto 46). Affinché determinati vantaggi possano essere qualificati come “aiuti” ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE, da un lato, essi devono essere concessi direttamente o indirettamente mediante risorse statali e, dall’altro, essi devono essere imputabili allo Stato (Corte di Giustizia, 13 settembre 2017, in causa C-329/15, ENEA S.A, punto 20).
La ricorrente non specifica sotto quale profilo possano essere integrati nella specie tali condizioni, tenuto conto, peraltro, che la disciplina in commento non obbliga al convenzionamento con la società Auditel –che rimane una scelta autonoma dell’imprenditore, il quale, pure in assenza del convenzionamento, è abilitato a prendere parte alla procedura concessoria – e, dunque, non attribuisce alla stessa risorse mediatamente riconducibili all’apparato statale.
Quanto al collegamento con la previsione di una graduatoria nazionale, si rinvia alle considerazioni che saranno svolte infra in merito allo scalino preferenziale ex art. 6, comma 2, DPR n. 146/2017.
17.4 Infine, ferme rimanendo le considerazioni che si svolgeranno anche sul piano concorrenziale nei successivi paragrafi, si rileva che la previsione di contributi regionali, parimenti, non può condizionare la legittimità della disciplina regolamentare in esame, in quanto la differenziazione al riguardo operata non discende dalla normativa statale, ma dalla regolazione introdotta in ambito regionale.
Peraltro, il mero contributo regionale, se valutato quale posta economica, non rileva ai fini selettivi ai sensi del DPR n. 146/17: ove impiegato per investimenti in nuove tecnologie o per il reclutamento di nuovo personale dipendente, emergerebbe, comunque, una differente dimensione organizzativa dell’impresa, valorizzabile ai fini della concessione dei contributi ministeriali.
Non produce effetti distorsivi della concorrenza neppure la possibilità di cumulo dei contributi in capo alla stessa emittente operante in più regioni, in quanto i singoli criteri selettivi trovano applicazione in relazione alla singola emittente, per la regione e il marchio/ palinsesto oggetto della domanda, il che esclude il rischio che lo stesso elemento organizzativo venga duplicato per effetto della sua valorizzazione in relazione a più marchi/palinsesti riconducibili allo stesso operatore.
La circostanza per cui non sia stato previsto un tetto massimo per la concessione dei contributi in favore della stessa emittente costituisce, invece, una scelta di merito, non manifestamente irragionevole, non determinando una violazione dei principi concorrenziali: la contribuzione rimane comunque parametrata alle dimensioni dell’operatore economico e, in particolare, ai dati di ascolto, al personale e alle spese di investimento riferibili esclusivamente a ciascuno dei marchi/palinsesti di cui l’operatore risulta titolare, con la conseguenza che la maggiore contribuzione è giustificata dall’effettivo possesso di una maggiore capacità organizzativa rilevante ai fini selettivi.
Del resto, anche questo Consiglio di Stato, nel parere definitivo n. 1563 del 2017, ha invitato “l’Amministrazione a valutare l’opportunità di prevedere un tetto massimo dei contributi erogabili per evitare una eccessiva concentrazione delle risorse in favore di società titolari di più emittenti e/o che operano in diverse regioni”, con la conseguenza che l’invito era pur sempre riferito ad una scelta di opportunità, senza influire sul piano della legittimità.
18. Il Collegio è chiamato, infine, a pronunciare sull’ultimo gruppo di censure, concernenti la previsione di una graduatoria nazionale con uno scalino preferenziale in favore dei primi cento classificati.
In particolare, ai sensi dell’art. 6, comma 2, DPR n. 146 del 2017, “Nell’ambito dell’istruttoria per la predisposizione delle graduatorie di cui all’articolo 5, nella parte relativa alle emittenti televisive commerciali, sulla base del punteggio totale che ciascuna emittente consegue dalla somma dei punteggi relativi alle aree indicate nella tabella 1 e dalle maggiorazioni di punteggio di cui ai commi 3 e 4 del presente articolo, il Ministero forma una graduatoria. Alle prime cento emittenti è destinato il 95 per cento delle risorse disponibili. Alle emittenti che si collocano dal centunesimo posto in poi è destinato il 5 per cento delle medesime risorse. Per queste ultime, si procede al riparto delle somme secondo il punteggio individuale conseguito per ciascuna delle tre aree indicate nella tabella 1, fermo restando che l’emittente collocatasi al centunesimo posto non può ottenere un contributo complessivo di importo più elevato di quella che si colloca al centesimo. Eventuali residui sono riassegnati alle prime cento emittenti in graduatoria, in misura proporzionale ai punteggi individuali relativamente alle tre aree indicate nella tabella 1”.
La disciplina positiva opera una netta differenziazione tra le emittenti prime cento classificate e quelle classificate dalla posizione centunesima in avanti.
Alla prima categoria di operatori è riservata la quasi totalità della contribuzione pubblica (il 95% dello stanziamento annuale disponibile, oltre che eventuali residui); alla seconda categoria una quota contributiva estremamente ridotta, pari al 5 %.
Una tale differenziazione, come si osserverà infra, non resiste alle censure sostanziali svolte dalla parte appellante, trattandosi di una scelta normativa incompatibile con gli obiettivi di interesse pubblico imposti dal legislatore.
Non meritano condivisione, invece, le censure procedimentali incentrate sulla mancata acquisizione del parere di questo Consiglio di Stato sulla modifica dello schema di regolamento operata in sede decisoria, attraverso la previsione dello scalino preferenziale.
19. Avuto riguardo a tale ultimo profilo di doglianza, devono richiamarsi le considerazioni sopra svolte in ordine alla necessità di un nuovo parere del Consiglio di Stato soltanto a fronte di mutamenti radicali dell’impianto normativo già sottoposto a consultazione, tali, dunque, da determinare, anziché mere modifiche migliorative, uno stravolgimento dell’impostazione alla base dello schema regolamentare già esaminato dall’organo consultivo.
In tali ipotesi, infatti, emerge, anziché uno schema modificato nel corso dell’iter procedurale – in ipotesi, pure per venire incontro alle eventuali osservazioni rese dall’organo consultivo, suscettibili di indurre l’organo decisorio a modificare talune previsioni normative in vista della decisione finale-, un nuovo schema normativo, per il quale occorre riavviare il procedimento di formazione dell’atto, acquisendo (per quanto di maggiore interesse) un nuovo parere del Consiglio di Stato.
Nel caso di specie, non emerge un radicale mutamento dello schema di regolamento, avendo l’Amministrazione introdotto un limite nell’attribuzione delle risorse economiche che, sebbene non originariamente previsto, ha riguardato profili su cui questo Consiglio si era già pronunciato, formulando pure specifiche osservazioni al riguardo.
In particolare, come emergente dal parere n. 1563 del 2017, questo Consiglio aveva rappresentato “la necessità di utilizzare nel testo una terminologia univoca ed appropriata e ricorda che il ricorso all’uso del termine “elenco” può essere effettuato quando la collocazione di un richiedente è fatta senza dare alcun valore al punteggio dallo stesso eventualmente conseguito mentre l’uso del termine “graduatoria” dà rilievo al punteggio acquisito dal richiedente ai fini del conseguimento dei possibili benefici.
La Sezione deve peraltro anche osservare che, dall’esame delle disposizioni trasmesse, non risulta sufficientemente chiaro se, una volta accertato il possesso (da parte delle emittenti) dei requisiti per il conseguimento dei benefici, con l’inserimento degli ammessi nell’elenco, tutti i soggetti inseriti (nell’elenco) hanno poi diritto ad ottenere i contributi (in una misura evidentemente proporzionale, nei limiti delle risorse disponibili) o se i contributi sono invece assegnati solo ai soggetti che hanno ottenuto un punteggio maggiore (e ciò giustificherebbe l’uso del termine graduatoria)”.
Per l’effetto, l’introduzione di uno scalino preferenziale è stata operata dall’Amministrazione con l’intento (come si vedrà, tradottosi in una previsione illegittima) di chiarire i dubbi manifestati da questo Consiglio di Stato, prevedendo che i contributi sarebbero stati destinati per la quasi totalità (95%) ai primi cento classificati, con destinazione di una quota del tutto marginale (5%) alle emittenti collocatesi dalla posizione centunesima a seguire, con conseguente emersione di un’effettiva graduatoria (locuzione presente nella formulazione finale dell’art. 6, comma 2).
Di conseguenza, sebbene, in ragione della rilevanza (anche costituzionale) degli interessi coinvolti e dei dubbi al riguardo manifestati da questo Consiglio, fosse certamente opportuno chiedere a questo Consiglio un nuovo parere sulla formulazione finale dell’articolato, la modifica de qua non ha, comunque, determinato lo stravolgimento dell’originario schema regolamentare – tale da configurare una nuova proposta normativa da sottoporre a nuovo parere -, ma una mera modifica (nell’intenzione dell’autorità ministeriale) migliorativa alla stregua delle osservazioni formulate dalla Sezione consultiva; il che non imponeva, sul piano della legittimità, la richiesta di un nuovo parere.
20. Meritano, invece, adesione le censure sostanziali riferite alla violazione del principio del pluralismo dell’informazione e alla distorsione concorrenziale prodotta dalla disposizione in esame.
21. Preliminarmente giova ricostruire la portata applicativa del principio del pluralismo informativo, costituente un valore centrale in un ordinamento democratico (Corte costituzionale n. 21 del 1991), rilevante nel settore radiotelevisivo in relazione a plurimi ambiti di disciplina.
In particolare, è possibile avere riguardo:
– al servizio pubblico radiotelevisivo, sottoposto ad una vigilanza da parte di un organo parlamentare al fine, da un lato, di evitare che il servizio pubblico venga gestito dal Governo in modo esclusivo o preponderante (Corte costituzionale, 24 giugno 2009, n. 222; 10 marzo 2008, n. 61), dall’altro, di assicurare l’offerta al pubblico di una gamma di servizi caratterizzata da obbiettività e completezza di informazione, con la precisazione che “l’imparzialità e l’obbiettività dell’informazione possono essere garantite solo dal pluralismo delle fonti e degli orientamenti ideali, culturali e politici, nella difficoltà che le notizie e i contenuti dei programmi siano, in sé e per sé, sempre e comunque obbiettivi” (Corte costituzionale, 13 marzo 2009, n. 69);
– alla prescrizione di limiti di affollamento pubblicitario, funzionali alla protezione, altresì, del pluralismo televisivo (Corte costituzionale, 29 ottobre 2015, n. 210)
– alle competizioni elettorali, dominate dal principio della parità di opportunità tra i concorrenti (Corte costituzionale, 17 novembre 2000, n. 502);
– al diritto all’informazione – riconducibile nell’ambito di tutela della libertà costituzionale di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost. – “qualificato e caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie − che comporta, fra l’altro, il vincolo al legislatore di impedire la formazione di posizioni dominanti e di favorire l’accesso del massimo numero possibile di voci diverse − in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti” (Corte costituzionale, 4 giugno 2019, n. 206);
– al numero e alla concentrazione delle emittenti televisive, occorrendo assicurare, attraverso appositi interventi normativi, sia l’espressione delle varie componenti culturali della società, sia la loro presenza sul mercato, in funzione della garanzia del pluralismo delle voci (cfr. art. 51 D. Lgs. n. 208/2021 e Corte costituzionale, 27 gennaio 2006, n. 25, che richiama tra le finalità alla base della legislazione in materia radiotelevisiva l’esigenza di evitare distorsioni della concorrenza, assicurare la suddivisione delle risorse pubblicitarie a tutela di ciascun settore e realizzare un bilanciamento volto a preservare il pluralismo dell’informazione; Corte costituzionale, 15 novembre 1988, n. 1030 rileva che i pericoli di concentrazione di frequenze e impianti in poche mani sono idonei a compromettere il fondamentale valore del pluralismo dell’informazione).
Tale ultimo profilo (che rileva, in maniera particolare, nell’odierno giudizio) afferisce alla “dimensione esterna” del pluralismo dell’informazione, implicante la garanzia del pluralismo dei media (Conclusioni dell’avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona, presentate il 18 dicembre 2019, in causa C-719/18), obiettivo di interesse generale, contemplato anche nell’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, fondamentale nell’ambito di una società democratica e pluralista (Corte di Giustizia, 3 settembre 2020, in causa C-719/18, punto 57).
Anche la giurisprudenza costituzionale discorre del “principio del pluralismo informativo esterno” (Corte costituzionale, 12 aprile 2005, n. 151) – da differenziare dal “pluralismo interno”, riferito alle regole che disciplinano il funzionamento della singola emittente (cfr. sentenza della Corte del 14 luglio 1988, n. 826 in relazione alla struttura organizzativa e allo svolgimento dell’attività dell’emittenza pubblica) – quale uno degli imperativi ineludibili emergenti dalla giurisprudenza costituzionale in materia di emittenza televisiva (sentenza n. 466 del 2002), esprimendo l’informazione una condizione preliminare per l’attuazione dei principi propri dello Stato democratico (in termini, Corte costituzionale, 15 ottobre 2003, n. 312).
In particolare, “il pluralismo dell’informazione radiotelevisiva significa, innanzitutto, possibilità di ingresso, nell’ambito dell’emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici, con la concreta possibilità nell’emittenza privata – perché il pluralismo esterno sia effettivo e non meramente fittizio – che i soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa dei processi di concentrazione delle risorse tecniche ed economiche nelle mani di uno o di pochi e senza essere menomati nella loro autonomia. Sotto altro profilo, il pluralismo si manifesta nella concreta possibilità di scelta, per tutti i cittadini, tra una molteplicità di fonti informative, scelta che non sarebbe effettiva se il pubblico al quale si rivolgono i mezzi di comunicazione audiovisiva non fosse in condizione di disporre, tanto nel quadro del settore pubblico che in quello privato, di programmi che garantiscono l’espressione di tendenze aventi caratteri eterogenei” (Corte costituzionale 14 luglio 1988, n. 826).
Si conferma, dunque, che il pluralismo dell’informazione impone, altresì, la presenza sul mercato di plurime emittenti, al fine di consentire la pluralità di voci concorrenti, essenziale (altresì) per assicurare il pieno esercizio del diritto del cittadino all’informazione.
Peraltro, in presenza di un mercato locale, definito in ragione della collocazione della sede principale dell’impresa e della sfera territorialmente limitata cui risulta riferita l’attività di emittenza, tale pluralità di operatori non può che essere garantita nell’ambito di ciascuna delle aree geografiche interessate, occorrendo che in ogni area locale così definita vi sia una pluralità di voci, riconducibili a plurimi emittenti in concorrenza tra di loro (Corte costituzionale, 14 luglio 1988, n. 826 evidenzia che la rilevanza dello sviluppo di un sistema informativo in grado di dar viva alle specifiche realtà locali rientra nell’imprescindibile compito di dare espressione a quelle istituzioni che rappresentano il tessuto connettivo del Paese).
22. Alla luce di tali considerazioni è possibile soffermarsi sulla disciplina regolamentare per cui è causa, evidenziando le ragioni per le quali la stessa, nella parte in cui introduce uno scalino preferenziale nell’ambito di una graduatoria nazionale predisposta senza correttivi riguardanti i mercati locali interessati, non possa ritenersi rispettosa del principio del pluralismo informativo previsto dall’art. 1 comma 163, L. n. 208/15, generando, altresì, effetti distorsivi sul piano concorrenziale.
23. Al riguardo, in primo luogo, deve ribadirsi la riferibilità dei contributi de quibus alle (sole) emittenti locali, operanti in ambiti territoriali regionali e infraregionali; ciò discende chiaramente dalla stessa titolazione del regolamento, riguardante le emittenti televisive e radiofoniche locali, oltre che dalla disciplina regolamentare, che opera un espresso riferimento alla “regione per cui viene chiesto il contributo” (art. 4 DPR n. 146/2017).
Per l’effetto, il mercato geografico in cui operano le emittenti destinatarie della contribuzione de qua è circoscritto al livello regionale o sub regionale, potendosi presentare una singola domanda di contributo per ogni regione in cui i concorrenti svolgono l’attività di impresa (art. 5, comma 1, DPR n. 146/2017).
24. In secondo luogo, deve darsi atto che i criteri selettivi previsti dalla disciplina regolamentare sono idonei ad attribuire una chance di utile collocamento in graduatoria – nelle prime cento posizioni – maggiore per gli operatori esercenti nelle Regioni più popolate, stante l’esistenza di una correlazione tra dato demografico regionale e dimensioni organizzative dell’emittente televisiva rilevanti ai fini selettivi.
24.1 Tale correlazione discende direttamente dal dato positivo in relazione al criterio riguardante il numero di dipendenti e giornalisti impiegati nell’attività di emittenza (art. 6, comma 1, lett. a) e b), DPR n. 146/2017).
24.1.1 Sebbene si tratti di un profilo controverso tra le parti, è lo stesso regolamento che, nel disciplinare i requisiti di ammissione alla pubblica contribuzione, rapporta il numero di dipendenti minimo richiesto “alla popolazione residente del territorio in cui avvengono le trasmissioni” (art. 4, comma 1, lett. a), DPR n. 146/2017), prevedendo differenti scaglioni a seconda che il territorio nell’ambito di ciascuna regione per cui è presentata la domanda abbia più di 5 milioni di abitanti, tra 1,5 milioni e 5 milioni di abitanti ovvero fino a 1,5 milioni; in particolare, è richiesto, ai fini dell’ammissione alla contribuzione, in relazione a ciascuno scaglione, il possesso di un numero minimo di dipendenti pari a 14 (di cui almeno 4 giornalisti), 11 (di cui almeno tre giornalisti) e 8 (di cui almeno 2 giornalisti).
Avendo la stessa autorità governativa posto una diretta correlazione tra numero di dipendenti impegnati nell’attività d’impresa e numero di residenti in ambito regionale – tale per cui al crescere delle dimensioni demografiche della regione si esige (per l’ammissione alla contribuzione) una struttura organizzativa d’impresa più ampia in termini di personale dipendente -, deve ritenersi che nelle regioni più popolate la sostenibilità dell’attività di impresa presupponga una maggiore dimensione organizzativa dell’emittente, suscettibile di esplicarsi, in particolare, in maggiori investimenti nel reclutamento del personale dipendente (ivi compresi i giornalisti).
La nuova disciplina regolamentare per cui è causa, come osservato, tendeva a riservare l’ammissione alla pubblica contribuzione a quegli operatori che svolgessero realmente attività di emittenza televisiva, non potendosi beneficiare economicamente imprese che si limitassero ad occupare spazio frequenziale.
Per l’effetto, se si richiede, ai fini dell’ammissione alla pubblica contribuzione, una capacità tecnico-organizzativa (sub specie, di numero di dipendenti) crescente all’aumentare del numero degli utenti serviti, coerentemente deve ravvisarsi un rapporto proporzionale tra le dimensioni organizzative dell’impresa e il numero di abitanti della regione in cui l’attività viene esercitata, occorrendo, per svolgere efficacemente l’attività economica, una dimensione organizzativa adeguata al pubblico degli utenti all’uopo servito.
24.1.2 Ciò rilevato, si osserva che il numero di dipendenti e giornalisti costituisce (non soltanto un requisito di ammissione alla contribuzione, ma anche) apposito criterio selettivo da applicare nell’attribuzione dei punteggi e nel riparto dello stanziamento annuale (influente sotto tale ultimo profilo per l’80% in relazione agli anni 2016 e 2017 e per il 67% per gli anni successivi e, dunque, comunque in misura maggioritaria– tabella 1 cit.).
Di conseguenza, posto che il numero di dipendenti e giornalisti, da un lato, deve ritenersi rapportato al numero di abitanti in ciascun ambito regionale, dall’altro, influisce sull’attribuzione del punteggio, la valorizzazione della struttura organizzativa dell’impresa in termini di risorse umane è idonea a differenziare le emittenti a seconda dell’ambito locale di loro operatività, essendo ipotizzabile, in relazione all’area selettiva in esame (art. 6, comma 1, lett. a e b, DPR n. 146/17) e in capo alle imprese operanti in contesti regionali più popolati – per i quali è riscontrabile, di regola, un maggiore numero di dipendenti impiegati nell’attività d’impresa – una maggiore chance di conseguire un più altro punteggio ai fini selettivi (per le dimensioni dell’organico) e, dunque, di ottenere un migliore posizionamento in graduatoria.
24.1.3 Non potrebbe diversamente argomentarsi, come avvenuto in primo grado, valorizzando alcune peculiari situazioni realizzatesi in applicazione della disciplina regolamentare, che hanno visto, per le annualità rilevanti nell’odierno giudizio, un alto collocamento in graduatoria di alcune emittenti operanti in Regioni meno popolate.
Invero, la legittimità di un atto amministrativo, anche ove avente natura normativa (quale il regolamento), deve essere valutata in applicazione del principio del tempus regit actum (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 21 giugno 2021, n. 4756), avuto riguardo allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, alla stregua del patrimonio conoscitivo disponibile ex ante.
Pertanto, la legittimità di una disposizione regolamentare non potrebbe essere scrutinata secundum eventum, tenuto conto degli esiti applicativi manifestatisi a distanza di tempo, suscettibili, peraltro, di essere condizionati da plurime variabili concrete che impediscono di minare quanto desumibile dalla stessa disciplina regolamentare in ordine alla diretta correlazione tra numero di abitanti in ambito regionale e numero di dipendenti impegnati nel corrispondente ambito locale.
24.2 Sebbene tali rilievi, riguardanti i criteri selettivi riferiti al personale dipendente ex art. 6, comma 1, lett. a) e b), DPR n. 146/17, siano sufficienti per evidenziare come le diverse condizioni demografiche dei contesti regionali di riferimento possano influire sul punteggio conseguibile dai singoli concorrenti -e, dunque, sulla formazione della graduatoria nazionale- con il conseguente rischio di una concentrazione dei punteggi più elevati in capo ai concorrenti operanti nelle Regioni più popolate, per completezza, si osserva che tale conclusione è confermata anche dalla disamina dell’ulteriore criterio selettivo riferito ai dati di ascolto.
Al riguardo, le parti intimate, così come il Tar in prime cure, hanno sostenuto che nelle Regioni più popolate il conseguimento di buoni risultati in termini di audience “può essere molto più arduo”, in ragione della presenza di un numero maggiore di concorrenti: al fine di avvalorare tale considerazione, si è operato un riferimento alla posizione di una emittente lombarda in rapporto a quella di un’emittente abruzzese o del Molise, come peraltro indirettamente confermato dalla graduatoria approvata in sede amministrativa, la quale aveva sancito l’assegnazione di risorse anche in regioni di limitato livello demografico.
Premessa l’irrilevanza degli esiti applicativi della disciplina regolamentare, come rilevato inidonei a condizionare il giudizio di legittimità da rendere nell’odierno giudizio, dagli atti di causa emergono elementi che smentiscono un tale assunto, incentrato sulla maggiore difficoltà di conseguire buoni risultati in termini di audience nelle regioni più popolate.
24.2.1 In particolare, dall’analisi di impatto della regolazione cit. (doc. 4 produzione Auditel) emerge, in primo luogo, che, in relazione ai dati sull’ascolto del 2013 e del 2014, i dati aggregati del settore televisivo locale attestano una percentuale di share sul totale del mercato televisivo nazionale pari al 5-6%.
Ciò dimostra come solo una ridotta parte del pubblico degli utenti sia mediamente impegnato nella visione della programmazione locale. Per l’effetto, in qualsiasi area regionale ogni emittente avrebbe la possibilità di incrementare i propri dati di ascolto, senza influire su dati di ascolto dei propri concorrenti, a loro volta posti in condizione di guadagnare ulteriori quote di mercato, stante la disponibilità di un’elevata percentuale di utenti mediamente non impegnati nella visione della programmazione locale.
Non risulta, dunque, dimostrata quella maggiore difficoltà a conseguire buoni risultati in termini di audience nelle regioni più popolate, che avrebbe potuto configurarsi a fronte di mercati caratterizzati da elevati percentuali di share riferite al settore televisivo locale, in cui effettivamente per ogni concorrente sarebbe stato arduo conseguire ulteriori quote di mercato, in quanto già occupate da propri competitori.
In presenza di uno share riguardante il settore televisivo locale estremamente basso (inferiore al 10%), a prescindere dal numero di contendenti, attesa l’esistenza di un amplissimo numero di telespettatori ancora non raggiunti dall’emittenza locale, ogni operatore potrebbe migliorare i propri dati di ascolto, ampliando la percentuale di propri telespettatori, senza che sia riscontrabile una maggiore difficoltà per le aree più popolate.
Tale capacità di guadagnare ulteriori quote di mercato, tuttavia, potrebbe influire in misura differente a seconda del contesto territoriale preso in esame.
Difatti, l’incremento (possibile, in ragione del ridotto share riferito al settore televisivo locale), nella stessa percentuale, dei dati di ascolto registrati da emittenti operanti in distinti ambiti regionali (connotati da un numero di abitanti estremamente differenziato) condurrebbe, in termini assoluti, a valori differenziati a seconda dell’area territoriale presa in considerazione, emergendo valori assoluti maggiori per le regioni più densamente popolate (applicandosi la stessa percentuale, riferita all’incremento dei dati di ascolto, ad una base di calcolo differente, data dai telespettatori raggiungibili, superiore per le Regioni con più abitanti).
24.2.2 In ogni caso, si osserva che, nell’ambito dell’analisi di impatto della regolazione in atti, l’Amministrazione ha preso espressamente in considerazione “l’osservazione per cui una ponderazione dell’ascolto con il numero di contatti premierebbe le emittenti operanti in bacini con maggior popolazione”: tale osservazione non è stata accolta, non in quanto l’assunto fattuale alla sua base risultava erroneo (stante l’inesistenza di una correlazione tra numero di contatti e popolazione residente in ambito regionale), ma “in quanto il criterio previsto è maggiormente rappresentativo della effettiva presenza dell’emittente sul territorio e della risposta dell’utenza alla programmazione proposta”.
Per l’effetto, non emergono dagli atti procedimentali indici sicuri per negare l’idoneità del numero di residenti in ogni area regionale ad influire sull’indice di ascolto, trattandosi, di contro, di circostanza dedotta in sede amministrativa, non contestata specificatamente dall’Amministrazione procedente, ma soltanto ritenuta inidonea a condurre ad un esito decisorio differente.
24.2.3 Non può, dunque, escludersi che il dato demografico influisca anche sul criterio dell’indice di ascolto, con il riconoscimento, in capo alle emittenti operanti nelle regioni più popolate, di un punteggio potenzialmente superiore (anche per gli indici di ascolto), rilevante per un migliore posizionamento in graduatoria.
25. Le considerazioni svolte in ordine alla idoneità dei criteri selettivi previsti dalla disciplina regolamentare ad influire diversamente sulle emittenti operanti nei vari contesti regionali, differenziati sul piano demografico, non determinano l’illegittimità dei medesimi criteri selettivi (definiti in valori assoluti, senza alcuna parametrazione al numero dei residenti in ciascun ambito territoriale) o della scelta dell’Amministrazione di concedere i contributi de quibus sulla base di una graduatoria nazionale, sebbene riguardanti l’emittenza locale; bensì influiscono sulla legittimità della decisione di introdurre uno scalino preferenziale a vantaggio dei primi cento classificati, cui viene destinata la quasi totalità della contribuzione (95%), senza prevedere accorgimenti volti ad impedire la concentrazione delle risorse pubbliche in taluni ambiti territoriali (generalmente i più popolati) a discapito di altri, in violazione del principio del pluralismo dell’informazione.
25.1 In particolare, si è già osservato, trattando dell’indice di ascolto, che criteri selettivi espressi in valore assoluto non possono ritenersi illegittimi, in quanto commisurano la contribuzione pubblica all’effettiva dimensione organizzativa dell’impresa e ai risultati concreti conseguiti sul mercato dal relativo operatore economico.
Pertanto, non potrebbe ritenersi ingiustificato il diverso trattamento giuridico di emittenti caratterizzate da un diverso numero di dipendenti, da un diverso ammontare delle spese di investimento o da un differente indice di ascolto: si fa questione di fattispecie non assimilabili, che non devono, a pena di illegittimità, essere necessariamente sottoposte allo stesso trattamento contributivo.
Parimenti, non può, di per sé, ritenersi illegittima la concessione dei contributi de quibus sulla base di una unica graduatoria nazionale, formata e gestita in sede accentrata dal Ministero dello Sviluppo Economico: ciò risponde ad esigenze di semplificazione dell’azione amministrativa, oltre che di uniforme interpretazione e applicazione sul territorio nazionale della disciplina positiva, evitando le inefficienze derivanti dalla formazione, a cura di organi decentrati, di plurime graduatorie regionali, come previsto nel previgente regime supra analizzato.
25.2 Tuttavia, qualora si opti per una graduatoria unica nazionale e si decida di applicare criteri selettivi in valore assoluto, specie se suscettibili di condurre a risultati differenziati a seconda dell’ambito territoriale di afferenza di ogni concorrente (come avvenuto con la disciplina regolamentare in commento, ai sensi di quanto sopra precisato), occorre adottare accorgimenti idonei ad evitare una squilibrata distribuzione delle risorse in ambito locale, dovendosi evitare il rischio che alcune aree territoriali siano sottorappresentate o perfino escluse dalla contribuzione pubblica, in violazione del pluralismo informativo, che -come osservato- impone di assicurare la pluralità di voci concorrenti in ciascun ambito territoriale in cui viene svolta l’attività radiotelevisiva.
Non si tratta di destinare la contribuzione a tutti i candidati in possesso dei requisiti di ammissione – il che non avveniva neppure sotto la vigenza della precedente disciplina, che riservava la contribuzione pubblica alle prime imprese classificate in ciascun ambito regionale nei limiti del trentasette per cento dei graduati, arrotondato all’unità superiore (art. 5 D.M. 05/11/2004, n. 292) – , ma di assicurare che, in ogni ambito regionale, vi sia un adeguato finanziamento pubblico in favore di un numero congruo di operatori, necessario per garantire quel concorso di voci, in assenza del quale non potrebbe attuarsi il principio del pluralismo informativo, per come sopra declinato.
La disciplina in contestazione non contiene tali accorgimenti, prevedendo uno scalino preferenziale che riserva alle prime cento classificate, a prescindere dall’ambito territoriale di operatività, la quasi totalità dei contributi pubblici (pari al 95%), per di più a fronte di criteri selettivi (si ripete, di per sé legittimi) formulati in valore assoluto e suscettibili di influire diversamente a seconda dell’ambito territoriale di operatività di ciascun concorrente (se maggiormente o meno popolato).
In tale maniera, si è introdotta una misura incompatibile con il principio del pluralismo informativo.
In definitiva, riservando la quali totalità della contribuzione pubblica ai primi cento classificati a prescindere dall’ambito territoriale di operatività, destinando ai rimanenti concorrenti una quota del tutto trascurabile (5%) dello stanziamento annuale e selezionando le emittenti sulla base di criteri selettivi in valore assoluto, pure suscettibili di influire sulla graduazione del punteggio a seconda della popolazione residente in ciascuna Regione, non si garantisce che in ciascun ambito territoriale vi siano più operatori beneficiari di un effettivo e adeguato finanziamento pubblico, essendo ben possibile che le elargizioni economiche si concentrino presso emittenti, sì caratterizzate da rilevanti dimensioni organizzative, indici di ascolto e spese di investimento in tecnologie innovative, ma operanti in alcuni soltanto degli ambiti regionali presi in esame (corrispondenti, di regola, a quelli più popolati).
25.3 Il che produce, altresì, effetti distorsivi della concorrenza (correttamente censurati, sotto tale profilo, dall’appellante), stante l’idoneità della disciplina regolamentare in commento a beneficiare un numero estremamente ristretto di operatori (in ipotesi, anche uno soltanto) esercenti nell’ambito del medesimo ambito territoriale, a fronte di livelli di efficienza analoghi.
In particolare, è ben possibile che, a cavallo della centesima posizione, si collochino plurimi operatori esercenti nel medesimo ambito territoriale, di cui uno soltanto (o, comunque, un numero estremamente ridotto) entro la centesima posizione, in tale modo ammesso a concorrere a valere sul 95% dello stanziamento annuale.
In tali ipotesi, la previsione di uno scalino preferenziale in assenza di correttivi relativi all’ambito territoriale di operatività dei concorrenti, è idonea a produrre effetti distorsivi della concorrenza, determinando un (rilevante) diverso trattamento contributivo di emittenti operanti nello stesso mercato, caratterizzate da analoghi livelli di efficienza e, dunque, agevolando irragionevolmente soltanto uno (o un numero estremamente ridotto) di essi nello svolgimento dell’attività di impresa.
Ciò è stato condivisibilmente censurato anche dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella segnalazione n. S3892 ai sensi dell’art. 21 L. n. 287/90, in cui si è rilevato che “In questa prospettiva presenta criticità sotto il profilo concorrenziale la previsione secondo cui il 95% delle risorse disponibili è assegnato alle prime cento emittenti televisive in graduatoria, mentre il restante 5% è ripartito tra quelle che si collocano dal centunesimo posto in poi. Tale previsione, infatti, è suscettibile di determinare una sperequazione nella distribuzione delle risorse tra emittenti che, posizionandosi nella medesima zona della graduatoria (intorno alla centesima posizione), devono ritenersi caratterizzate da livelli di efficienza confrontabili. In particolare, ciò potrebbe avere implicazioni distorsive della concorrenza nella misura in cui due o più delle emittenti sulle quali impatta la discontinuità introdotta dalla specificazione appena richiamata si trovano a operare nel medesimo ambito locale”.
Diversamente da quanto dedotto dalle parti intimate, non si fa questione di circostanze meramente ipotetiche, suscettibili di essere scrutinate solo ove dovessero in concreto verificarsi, ma dell’irragionevolezza della previsione regolamentare astratta, suscettibile di determinare una distorsione della concorrenza.
Come precisato da questo Consiglio, “in ogni operazione di finanziamento non è intellegibile solo un interesse del beneficiario ma anche quello dell’organismo che lo elargisce il quale, a sua volta, altro non è se non il portatore degli interessi, dei fini e degli obbiettivi del superiore livello politico istituzionale; logico corollario è che le disposizioni attributive di finanziamento devono essere interpretate in modo rigoroso e quanto più conformemente con gli obbiettivi avuti di mira dal normatore, anche allo scopo di evitare che si configurino aiuti di stato illegittimi” (tra gli altri, Consiglio di Stato, Sez. III, 22 febbraio 2019, n. 1236).
La previsione di uno scalino preferenziale, senza accorgimenti idonei a garantire il finanziamento di una pluralità di operatori in ciascun ambito regionale, permette di riservare la contribuzione, nell’ambito del singolo mercato locale, in favore di una sola impresa (o di un numero di emittenti insufficiente per la tutela del pluralismo informativo), configurando, pertanto, aiuti illegittimi (anche) sul piano concorrenziale.
25.4 Alla luce dei rilievi svolti, deve ritenersi che l’Amministrazione, anziché limitarsi a riservare ai primi cento classificati il 95% dello stanziamento annuale, avrebbe dovuto adottare specifici accorgimenti volti ad assicurare un adeguato finanziamento di un numero minimo di emittenti per ciascuno degli ambiti regionali considerati (determinato discrezionalmente in ragione delle caratteristiche di ciascun ambito), al fine di sostenere finanziariamente la presenza di una pluralità di voci concorrenti per ogni area locale, nel rispetto del principio del pluralismo informativo, costituente un apposito obiettivo di interesse generale imposto dalla fonte primaria.
Non potrebbe argomentarsi diversamente, evidenziando che, comunque, le emittenti collocate dalla centunesima posizione in poi, sarebbero beneficiate del 5% dello stanziamento annuale: trattasi di una quota estremamente marginale, che non è provato essere idonea a sostenere effettivamente l’azione delle emittenze televisive graduate oltre la centesima posizione, stante la manifesta divergenza tra quanto stanziato (in termini percentuali e assoluti) per i primi cento classificati e quanto destinato (in termini sempre percentuali e assoluti) ai rimanenti concorrenti.
Parimenti, non potrebbe ritenersi che l’Amministrazione abbia adottato specifici accorgimenti, riguardanti i distinti ambiti territoriali di operatività delle emittenti televisive, attraverso la commisurazione dei requisiti di ammissione alla pubblica contribuzione al numero di residenti nelle varie aree regionali: tale parametrazione al numero di abitanti riscontrabile in ogni ambito regionale è stata operata soltanto ai fini dell’ammissione alla procedura concessoria ex art. 4 DPR n. 146/2017, ma non anche in relazione all’attribuzione dei punteggi ex art. 6 DPR n. 146/2017, non potendo, dunque, rilevare ai fini della formazione della graduatoria e, dunque, non potendo escludere il rischio che la quasi totalità della pubblica contribuzione si concentri soltanto presso alcune delle aree regionali interessate o, comunque, sia rivolta, in alcune di tali aree, in favore di un numero estremamente ridotto di operatori, non adeguatamente rappresentativo delle esigenze pluralistiche emergenti in ambito locale; in violazione, come osservato, del principio del pluralismo informativo.
26. Alla luce delle considerazioni svolte, deve riscontrarsi, in parte qua, l’illegittimità del regolamento impugnato, relativamente alla previsione, recata nell’art. 6, comma 2, DPR n. 146/2017, secondo cui “Alle prime cento emittenti è destinato il 95 per cento delle risorse disponibili. Alle emittenti che si collocano dal centunesimo posto in poi è destinato il 5 per cento delle medesime risorse. Per queste ultime, si procede al riparto delle somme secondo il punteggio individuale conseguito per ciascuna delle tre aree indicate nella tabella 1, fermo restando che l’emittente collocatasi al centunesimo posto non può ottenere un contributo complessivo di importo più elevato di quella che si colloca al centesimo. Eventuali residui sono riassegnati alle prime cento emittenti in graduatoria, in misura proporzionale ai punteggi individuali relativamente alle tre aree indicate nella tabella”.
Tali disposizioni devono, dunque, essere annullate.
Per l’effetto, in quanto inficiati da vizi di legittimità derivata, devono essere annullati anche i dipendenti atti amministrativi, impugnati in prime cure, relativi alle procedure concessorie svolte per le annualità 2016 e 2017, nella parte in cui hanno dato attuazione all’art. 6, comma 2, cit. e, dunque, hanno liquidato il contributo dovuto a ciascun operatore sulla base del previo riparto dello stanziamento annuale tra quota (95%) spettante ai primi cento classificati e quota (5%) destinata ai concorrenti collocati a partire dalla centunesima posizione a seguire.
In attuazione del presente giudicato, rimane ferma la possibilità per l’Amministrazione:
– di rideterminare, in favore dei concorrenti già graduati, i contributi dovuti per gli anni 2016 e 2017 rilevanti nell’odierno giudizio, destinando il 100% dello stanziamento annuale a tutti i graduati, liquidando il contributo a ciascuno di essi spettante in proporzione del rispettivo punteggio per come riportato nella graduatoria approvata (senza, pertanto, l’applicazione dello scalino preferenziale annullato con la presente pronuncia e tenendo conto, invece, dei punteggi assegnati in sede amministrativa, in applicazione di criteri selettivi ritenuti legittimi dal Collegio), nonché regolando, all’esito (anche attraverso la compensazione delle rispettive posizioni creditorie), i rapporti obbligatori nelle more instaurati con le parti private sulla base della disciplina in parte qua annullata;
– in alternativa, stante l’inesauribilità del potere normativo, di procedere al suo riesercizio nell’osservanza dei criteri conformativi discendenti dalla presente sentenza (funzionali a garantire il pluralismo informativo in ogni ambito regionale e ad evitare distorsioni concorrenziali), provvedendo, all’esito e sulla base della disciplina per come eventualmente riformulata, ad una rideterminazione dei contributi dovuti per gli anni 2016 e 2017 ai concorrenti classificati, con successiva regolazione (anche attraverso la compensazione delle rispettive posizioni creditorie) dei rapporti obbligatori nelle more instaurati con le parti private sulla base della disciplina in parte qua annullata.
27. In conclusione, l’appello incidentale deve essere dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione attiva, mentre deve essere accolto l’appello principale ai sensi e nei limiti sopra precisati e, per l’effetto, in riforma parziale della sentenza gravata, devono essere accolti nei predetti limiti il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti di primo grado.
28. La complessità e la novità delle questioni esaminate impongono l’integrale compensazione tra tutte le parti processuali delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello principale e sull’appello incidentale, come in epigrafe proposti, così provvede:
– dichiara l’inammissibilità dell’appello incidentale per difetto di legittimazione attiva;
– accoglie ai sensi e nei limiti di cui in motivazione l’appello principale e, per l’effetto, in riforma parziale della sentenza gravata, accoglie nei predetti limiti il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti di primo grado;
– compensa interamente tra tutte le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 giugno 2022 con l’intervento dei magistrati:
Hadrian Simonetti, Presidente FF
Francesco De Luca, Consigliere, Estensore
Marco Poppi, Consigliere
Giovanni Pascuzzi, Consigliere
Ulrike Lobis, Consigliere
L’ESTENSORE
Francesco De Luca
IL PRESIDENTE
Hadrian Simonetti
IL SEGRETARIO
(Pubblicato il 09/09/2022)